Israele e i cattolici, quando i migranti diventano una risorsa

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Israele e i cattolici, quando i migranti diventano una risorsa

Israele e i cattolici, quando i migranti diventano una risorsa

06 Dicembre 2016

Nei territori palestinesi, i cristiani sono costretti a vivere come dhimmi – cittadini di seconda classe, che sopravvivono soprattutto grazie alla tassa di protezione necessaria a garantirgli la sicurezza quotidiana. Quando va bene, sono semplicemente tollerati, e la discriminazione attuata dagli arabi musulmani rende impossibile, o perlomeno molto difficile, gestire un’attività commerciale redditizia, il che impedisce agli arabi cristiani e alle loro famiglie di integrarsi pienamente nella società. È la situazione dei cristiani in Medio Oriente ad essere, in generale, e a dir poco, problematica. In Iraq, Siria, Egitto, le chiese vengono incendiate e i cristiani massacrati per la loro fede. Ordinaria amministrazione, niente di più.

In Israele, invece, i cristiani crescono e prosperano. Sanno che nell’intera regione, lo Stato ebraico è l’unica isola che garantisca loro libertà e rispetto dei diritti umani. A leggere The Tower si comprende come il cuore di grandi città israeliane come Tel Aviv sia multietnico. Le strade sono percorse da voci asiatiche e africane. E, da quelle parti, facendo un po’ di attenzione, si può notare un edificio privo di alcun segno esteriore, mimetizzato con l’ambiente circostante. È lì che, da un paio d’anni, si riuniscono centinaia di migranti provenienti dalle Filippine, Eritrea, Etiopia, India e Sri Lanka. Si tratta del Centro Pastorale di Nostra Signora del Coraggio. Una cappella che funge anche da centro comunitario cattolico, aperto nel 2014, e che offre una finestra privilegiata per comprendere meglio il sottovalutato fenomeno dell’aumento del numero di cristiani in Israele

Per uomini e donne spesso vittime delle persecuzioni, che sono stati costretti a lasciare le loro famiglie (famiglie che non vedono da anni e a cui spediscono il denaro che riescono a guadagnare), il centro pastorale è diventato il luogo in cui riescono a sentirsi a casa. Si riuniscono per pregare, per partecipare alla Messa, e, probabilmente, è il dolore per aver lasciato i loro cari a tenerli uniti. Il centro offre oltre una dozzina di messe e catechismo in varie lingue a settimana, ed altri servizi sociali essenziali come asilo nido, dopo-scuola per i figli degli immigrati, e una piccola casa di cura.

Dunque una crescita significativa per tante ragioni, quella della Chiesa cattolica in Israele. Per la prima volta in quasi un secolo, il Patriarcato latino ha ampliato la sua presenza in Terra Santa. Fenomeno tanto più importante se consideriamo che in tempi non lontani a queste latitudini la presenza cattolica era demograficamente agonizzante. Ridotta a percentuali esigue e allo sbando. Ovunque chiese inutilizzate e in disarmo, un larghissimo numero di cristiani che preferiva emigrare altrove. Più di recente, invece, il loro numero è aumentato proprio per via del flusso di migranti stranieri.

Molte chiese sono tornate in uso, fervono le opere, e per soddisfare le esigenze dei migranti sono stati creati nuovi luoghi di culto come quello di Nostra Signora del Coraggio. Il sacerdote filippino che gestisce il centro giudica la situazione paradossale, perché nella terra dove il cristianesimo è nato “la maggior parte dei cristiani, oggi, sono migranti”. I lavoratori, prevalentemente provenienti da paesi africani e asiatici, hanno cominciato ad arrivare in Israele in maniera massiccia più o meno negli anni Novanta. Oggi, secondo un’organizzazione non governativa che si occupa della tutela dei diritti dei lavoratori stranieri e del contrasto alla tratta di esseri umani, sono 70mila i lavoratori stranieri autorizzati. Si tratta in prevalenza di operai, maestranze, oppure badanti che si occupano di anziani, malati e disabili.

Così, mentre lo status giuridico dei bambini figli di lavoratori e rifugiati provenienti dalle Filippine, Eritrea e Sudan, continua ad essere al centro dei dibattiti politici, sono le comunità religiose cattoliche ad aiutare i nuovi arrivati, non solo nel sostentamento, ma anche nella integrazione e nel rispetto dei controlli. La Chiesa cattolica ha fatto da collante, e dato rifugio e accoglienza, a migliaia di persone, tantissime storie di migranti che si intrecciano. Oggi luoghi come Nostra Signora del Coraggio rappresentando un punto di riferimento stabile. Se allarghiamo lo sguardo alla intera regione, il numero dei cristiani sta crescendo anche in altri stati musulmani. In luoghi come l’Arabia Saudita e il Qatar, il tasso di crescita è del nove per cento l’anno, proprio grazie al flusso di migranti che arrivano da altri Paesi o fuggono dalle terre in cui i cristiani vengono perseguitati. Sono persone “che lavorano”, ci tengono a puntualizzare i diretti interessanti, i sacerdoti che li accolgono e chi gestisce i centri religiosi.

C’è chi ha lasciato tutto per arrivare in Israele: “Come cattolica, mi sento libera a Tel Aviv. Non mi sento oppressa, Israele è un Paese emancipato e aperto”, dice una di loro. Eppure nonostante tutto in Medio Oriente la libertà di fede per i cristiani resta sotto scacco. Gli ambienti musulmani più integralisti continuano a macchiarsi di episodi vandalici fino a veri e propri atti di persecuzione ai danni delle chiese e delle comunità cristiane, più precisamente cattoliche. Quale sarà il destino di una comunità cristiana che ha scelto di accettare le regole del posto in cui è arrivata e di lavorare e integrarsi, rendendosi parte attiva dello Stato che la ospita, non lo sappiamo. Ma si può essere ottimisti. Vivere in Israele per i cattolici vuol dire essere al sicuro. Esperienze come quella di Nostra Signora del Coraggio, infine, sono una prova, positiva, di come gestire i flussi migratori.

Ma oggi, il solo fatto di pronunciare il nome di Israele, fa perdere
la ragione a molti. Specie agli intellettuali occidentali. La verità è
che Israele, come l’ha definita qualcuno, è una “Startup nation”.