“Italianizzare il debito pubblico è l’unico modo per risolvere la crisi”
31 Gennaio 2012
Non esiste tema più dibattuto di questi tempi: come mettere mano allo stock del debito pubblico italiano, evitando però una deprimente patrimoniale. L’economista Guido Salerno Aletta assieme all’ex-ragioniere dello Stato, Andrea Monorchio, propongono la creazione di un fondo ove conferire parte del patrimonio immobiliare dello Stato, almeno quello immediatamento disponibile, e il capitale delle buone controllate dello Stato (Eni, Enel, Finmeccanica, ect). Un fondo del patrimonio degli italiani, insomma. La loro proposta, già in circolazione da qualche mese, è tornata in questi giorni alla ribalta con un incontro tenutosi a Palazzo Mezzanotte lo scorso 26 Gennaio a Milano dal titolo "‘Tagliare il Debito, Fare Sviluppo Day" al quale ha preso parte un bel pezzettino di gota milanese dell’accademia, del giornalismo e dell’impresa.
Obiettivo dell’incontro: discutere sul modo migliore d’abbattere quei 900 miliardi di euro di debito in venti anni che l’Europa ci chiede di operare. Si tratta niente meno che del 60% del debito pubblico italiano nel rapporto debito/PIL. Nella proposta Salerno Aletta – Monorchio i cittadini possessori di immobili dovrebbero fare un prestito a tale fondo (su base volontaria o forzosa, le opzioni sono aperte) pari a circa il 10 per cento del valore dell’immobile. La provvista di fondi potrebbe essere fatta dai cittadini presso le banche facendo mettere una limitata ipoteca sul valore dell’immobile stesso. Il tutto senza deprimere l’economia italiana, ma al contrario facendo sviluppo.
L’Occidentale ne ha appunto voluto parlare con uno degli ideatori, l’economista Guido Salerno Aletta. Ci dice che le ricette del passato non funzionano più: "Tra il 1992 e il 2007, abbiamo abbattuto il debito italiano di un misero 1% e poco più annuo. Per abbatterlo del 20%, visto che lo dobbiamo portare attorno al 100% dal 120% debito/PIL dov’è oggi, ci metteremmo almeno 7 anni e mezzo e 2 manovre all’anno. Con la nostra proposta solo tre anni, faremmo sviluppo e risparmieremmo moltissimo". E sulla finalità della loro proposta, l’economista taglia corto: "Dobbiamo favorire un reitalianizzazione del debito pubblico italiano".
Come mai non riusciamo a trovare una soluzione alla tenaglia del debito pubblico in Italia?
Innanzitutto bisogna comprendere quello che si è fatto negli ultimi venti anni, ovvero dal 1992 a oggi. L’idea era quella di abbattere il debito pubblico prelevando dalle imposte una somma che andasse di volta in volta a ridurre il debito in circolazione. Questa impostazione di politica economica l’Italia l’ha pagata in termini di crescita. Tra il 1992 e il 2007, in quindici anni, l’Italia è riuscita a ridurre di 17 punti percentuale il proprio rapporto debito/PIL, coerentemente con il trattato di Maastricht che diceva che le condizioni sono quelle di una “tendenziale e sostenuta riduzione del rapporto debito/PIL”. Negli ultimi anni però questo risultato si è pagato in termini di crescita, la ricchezza che è rimasta nel nostro paese è diminuita.
Ci spieghi com’è accaduto?
Il problema è la spesa per interessi che nel 2010 è stata di 70 mld di euro e nel 2011 è stata di 80 mld di euro. Per darle il senso di quanto spendiamo d’interessi sul debito, li si metta in relazione a quei 130 mld d’euro che spendiamo nel Servizio Sanitario Nazionale, oppure ai 102 mld d’euro che corrispondono al gettito dell’Iva. Questo procedimento d’abbattimento del debito sottrae troppe risorse per remunerare il servizio del debito. In venti anni noi abbiamo pagato per remunerare il servizio del debito una somma pari all’ammontare del PIL annuo italiano, circa 1900 miliardi d’euro. Si rende conto?
In base a questa lettura le scelte compiute attorno al nodo debito dalla classe politica italiana sono state tutte sbagliate. Perché si è continuato a battere questa pista a suo avviso?
E’ incomprensibile e lo è ancor di più perché ciò ci ha messo in una condizione di estrema fragilità. Abbiamo tolto soldi all’economica, abbiamo remunerato il capitale – cioè il debito – quando poi c’è stato un momento di difficoltà – la crisi del credito 2007-08 – l’Italia è stata penalizzata. Ciò è accaduto perchè il vecchio debito è venuto a costare di più e dunque il vecchio debito ha creato nuovo debito. In quindici anni si è riuscito ad abbattere il debito solo del 17% rispetto al PIL. Per intenderci poco più dell’1% annuo.
Restiamo sulla proposta che lei ha fatto con l’ex-ragioniere dello Stato Andrea Monorchio. Come si declina?
Temporeggio. Perché c’è un’altra premessa da fare. Partiamo dall’obiettivo che abbiamo oggi. Dobbiamo lentamente portare, diciamo in un orizzonte temporale di 20 anni, il rapporto debito/PIL al 60%. Per far ciò dobbiamo operare una riduzione del debito sul PIL del 3% annuo circa. Significa in sostanza dimezzare l’attuale debito pubblico, portandolo dagli attuali 1900 mld d’euro a circa 1000 mld di euro. Si tratta di fatto di pagare 900 mld di euro. Ora se in 15 anni abbiamo fatto più di 35 manovre e siamo riusciti a ridurre di un misero 1% annuo il nostro debito, ciò significa che con un obiettivo ancora più ambizioso, le soluzioni messe in campo precedentemente non sono più spendibili. Il tutto partendo da un assunto: le famiglie italiane, rispetto al reddito, sono tra le più ricche del mondo. I problema dell’Italia è che gli italiani sono stati disincentivati ad investire in titoli di Stato.
Ci spieghi perchè?
Beh, tanto il sistema bancario quanto il sistema finanziario, complici le decisioni politiche, sono riusciti a spingere gli italiani a investire altrove, accaparrandosi delle risorse che in passato sarebbero state allocate in titoli di Stato italiani. Ripeto in un contesto di ricchezza. Basti andarsi a leggere l’indagine sulla ricchezza delle famiglie italiane recentemente pubblicata da Banca d’Italia, dice che nel 2010, il valore degli immobili è cresciuto dello 0,2%.
Questo però perchè in Italia non c’è (stata) una bolla immobiliare, no?
Esattamente. Non è avvenuto quel che invece è accaduto altrove, e penso agli Stati Uniti, dove la bolla del settore immobiliare ha causato una perdita significativa del valore degli immobili. Il vero capital loss, la perdita di capitale in Italia è stato nell’investimento azionario, quantificabile nel nostro paese all’incirca in 180 mld di euro. Le famiglie italiane hanno sempre privilegiato un investimento immobiliare molto prudente, ma di volta in volta si sono acconciate ad andare sul mercato mobiliare, abbandonando progressivamente gli investimenti in titoli di Stato italiani.
Però adesso mi parli in concreto della proposta che lei ha formulato assieme all’ex ragioniere dello Stato, Andrea Monorchio. Cerchiamo di capire di cosa si tratta?
Dobbiamo abbattere lo stock di debito? Sì. Rispetto a questo obiettivo, la prima cosa che noi diciamo è questa: quanto valgono tutti gli immobili degli enti pubblici? Almeno 300 mld di euro e mi riferisco a quelli immediatamente disponibili. Parliamo di quegli immobili al cui interno c’è gente che lavora e per i quali si può pagare un affitto. Invece di venderli a tanti soggetti allo spiccio, dovremmo metterli dentro ad un fondo nel quale sono invitati alcuni – obbligati altri – a investire. Immaginiamo i fondi pensione che cercano investimenti redditizi. Chissà dove devono andare in giro per il mondo a cercare. Se noi dentro questo fondo mettessimo le quote di Eni, di Enel e via discorrendo, diventerebbe un fondo del patrimonio degli italiani. Gli italiani se lo comprano, e con i soldi che ne derivano, si abbatte il debito pubblico di 300 mld. Immagini 300 mld di manovre al 3% annuo, ci voglio almeno 7 anni, ovvero una legislatura e mezzo – 7 anni e mezzo – e almeno due manovre l’anno. S’immagina che cosa vuol dire, due manovre l’anno per scendere di 300 mld d’euro? Gli italiani sono ricchi. Non siamo gli irlandesi. Non siamo i greci. Un buon esempio è la ricapitalizzazione di Unicredit. “Come si farà? Come si farà?” dicevano tutti. E alla fine gli imprenditori italiani si sono guardati nelle palle degli occhi e i soldi li hanno trovati. D’altronde come potevano permettere che morisse una delle banche che erogava loro capitale.
Cerchiamo di capire. Voi suggerite al decile più ricco italiano di fare un investimento non su titoli di Stato, bensì su titoli di proprietà dello Stato?
Esattamente. Investimenti su titoli di proprietà esentasse per 50 anni. Questa è la prima parte.
Ci parli della seconda?
Beh, la seconda è pagare una quota delle spese pubbliche in titoli. Il 2,5% delle spese correnti, dunque su 660 mld di euro, e il 6% delle spese di parte capitali – ovvero 66 mld di euro – consente di sostituire ogni anno 20 mld di euro di titoli di debito pubblico ad un tasso basso, senza nessun danno. Nel giro di venti anni noi sostituiamo 400 mld d’euro di titoli. Questo è abbattimento dello stock. In più questi titoli potrebbero divenire garanzia presso gli istituti di credito, i quali potrebbero dunque trasformarsi in liquidità. Mi chiedo: che interesse ha l’Italia a pagare il 7-8% di remunerazione sui titoli di debito verso l’estero? Questa è tutta ricchezza che viene drenata verso l’esterno.
Sa dirci a quanto ammontano gli oneri sul debito che vanno a remunerare all’estero?
Al 2% del PIL annuo italiano.
Per intenderci: la vostra proposta mira di fatto a una reitalianizzazione del debito pubblico italiano. E’ così?
Certamente. Questa è l’unica soluzione per uscire dalla crisi. Ci sarebbe poi da proporre un’applicazione di un’ipoteca, diciamo al 10%, sugli immobili privati, remunerandolo al 2,5% a cinquanta anni. Si rende conto di quanto denaro risparmieremmo rispetto al 7% che paghiamo oggi? Ma perché dobbiamo pagare le pensioni alle casalinghe scozzesi o ai maestri americani, quando potremmo tenere i soldi dentro al paese, magari investendo in progetti di sviluppo come le infrastrutture. Guardi a quel che fa il Giappone. Esattamente questo: indebitato più di noi, investe in infrastrutture, nel futuro. Quando si paga il 2% del PIL per gli interessi dei titoli detenuti all’estero, quella è tutta ricchezza che se ne va. Insomma la nostra soluzione permetterebbe di risolvere un sacco di problemi. Soprattutto alla luce di quel che sta accadendo negli Stati Uniti riguardo al debito americano.
Appunto parliamo di debito pubblico statunitense. Che parte sta giocando secondo lei il forte indebitamento che il governo federale USA nella crisi del debito europeo?
Ha un peso formidabile. Uno degli aspetti fondamentali è che l’America non ha risparmio privato. Dunque è costretto a far sottoscrivere debito pubblico alla Cina. Quanto Pechino non sottoscrive, la Fed è costretta ad attuare un allentamento quantitativo. Gli Stati Uniti sono in una posizione di debolezza perché il debito pubblico statunitense lo detengono i giapponesi e i cinesi. Da un anno a questa parte la Cina non compra più il debito pubblico statunitense e paesi come la Russia iniziano addirittura a venderlo. Quando il debito non lo comprano gli altri paesi, l’America è costretta a svalutare la moneta e a chiedere ai propri fondi d’investimento di comprare il proprio debito e non quello europeo. Da qui la crisi del debito nel Vecchio Continente.
Va bene gli Stati Uniti. Però anche la politica della Bce non ha aiutato moltissimo i governi della zona euro a far fronte a questa situazione, non trova?
E’ dire un eufemismo. La politica della Bce di aumentare il tasso di riferimento portata avanti da Jean-Claude Trichet è stata esiziale perché ha svalutato tutto il portafoglio titoli. L’America insegna in questo senso: i tassi devono essere tenuti il più bassi possibile così tutto il portafoglio dei titoli emessi precedentemente si rivaluta.
Si spieghi meglio?
Se lei ha in portafoglio titoli a trenta anni emessi quando il tasso era la 7% mentre oggi i titoli a trenta anni stanno al 2%, lei in portafoglio non ha più 100, bensì ha in portafoglio 110. Insomma tutti i paesi fanno considerazioni finanziarie. Gli unici che ancora fanno considerazioni in termini di bilancio siamo noi italiani. Questo non è ammissibile. E’ per questo che gli operatori fuggono dai titoli europei, perché gli svalutiamo tutto il portafoglio.
Qualche giorno fa, l’Occidentale ha pubblicato la proposta di Giuseppe Pennisi per far fronte al problema debito. Prevede anch’essa la creazione di un fondo, con tre “sottostanti” (patrimonio pubblico – patrimonio immobiliare privato – il capitale delle migliori partecipate italiane, Eni, Enel, Finmeccanica, etc.) che emetta titoli a tassi agganciati a quelli Bce. Che ne pensa?
Va certo nella direzione giusta. D’altronde se una famiglia acquista una casa di proprietà, magari una seconda casa che viene usata per le vacanze, dov’è l’utilità? Sta nel poter affittarla e, non so, se sta al mare, farci una vacanza. Sul piano finanziario però è un immobilizzo. Se ci si mette sopra un’ipoteca del 10% a fronte di titoli emessi al 2-2,5%, almeno la famiglia pago le bollette.
In chiusura, come se ne esce?
Se ne esce affrontando il dramma del cambiamente rispetto a una pletora di economisti vecchi che raccontano sempre le stesse cose. Anche il presidente Monti, in qualit di economista, è un uomo del passato. Questo suo pallino per la concorrenza aveva un significato quando si faceva i conti con i veri monopoli. Ma oggi non c’è più quella situazione. E pensare di abbassare i prezzi con qualche licenza in più, o con qualche pizzeria in più, non è possibil ed è fuorviante. Non è questo il problema. Oggi il problema è la buona gestione delle risorse disponibili e il raggiungimento della massa critica, soprattutto a livello di spesa delle pubbliche amministrazioni.