Torna alle stelle la tensione nel Kashmir, la regione dell’Himalaya occidentale divisa tra India e Pakistan, teatro di tre conflitti (1947-48, 1965 e 1999) tra le due potenze nucleari dell’Asia Meridionale. Nell’ultimo anno, lungo la ‘Linea di controllo’ – il confine de facto che divide il versante pakistano da quello indiano (Jammu e Kashmir), si sono registrati una ventina di scontri a fuoco tra i militari delle due parti, oltre a numerose proteste organizzate nel settore sotto la sovranità di Delhi da gruppi separatisti musulmani locali.
La contesa per il Kashmir risale al 1947, all’epoca della partizione tra Pakistan e India dei possedimenti britannici nel subcontinente indiano. I musulmani del Jammu e Kashmir (l’unico Stato dell’Unione indiana dove costituiscono la maggioranza della popolazione) sono storicamente divisi tra un’ala favorevole all’indipendenza e una che guarda all’annessione del Pakistan. Alcuni leader islamici sono disposti ad aprire un dialogo con l’India per trovare una soluzione negoziata alla crisi, mentre altri vedono nella guerra a tutto campo contro Delhi l’unico mezzo per realizzare le proprie aspirazioni politiche. La recente escalation di violenze ha interrotto un periodo di relativa calma, inaugurato nel 2003 dopo la firma di un cessate-il-fuoco fra i due contendenti e l’avvio di negoziati per la conclusione di una pace definitiva.
Negli ultimi mesi sono aumentate esponenzialmente le proteste dei gruppi separatisti kashmiri contro il governo indiano. La campagna armata degli indipendentisti islamici è iniziata nel 1989 e le stime parlano di un numero di morti che oscilla tra i 40 e i 100 mila, la maggior parte civili. La situazione ha conosciuto una recrudescenza nel mese di agosto, quando il governo del Jammu e Kashmir ha concesso un terreno per il tempio induista di Sri Amarnath, scatenando le ire della comunità musulmana locale. Per tutta risposta, gruppi nazionalisti indù hanno bloccato l’unica arteria stradale che collega lo Stato al resto dell’India.
Gli scontri degli ultimi due mesi hanno lasciato sul campo 45 morti, tutti dimostranti musulmani uccisi dal fuoco dei militari indiani. Per bloccare una marcia indipendentista a Srinagar (capitale del Kashmir indiano), programmata per lunedì scorso, le autorità indiane avevano decretato un coprifuoco di due giorni, a cui era seguito l’arresto di due importanti leader separatisti locali: Mohammed Yasin Malik e Mirwaiz Omer Farooq.
Il Kashmir è il crocevia geopolitico del subcontinente indiano, punto di intersezione delle direttrici strategiche di India e Pakistan, e le sue vicende si intrecciano inestricabilmente con quanto sta accadendo sul fronte afgano. Nell’ottica della competizione regionale con l’India, infatti, questa regione contesa ha rappresentato negli ultimi 60 anni per i pakistani una piattaforma da cui lanciare le più serie – e pericolose – sfide alla dirompente ascesa politico-miliare del suo potente vicino.
Per Islamabad, la conquista di un territorio abitato in prevalenza da correligionari è un problema secondario rispetto a quello della difesa da un attacco esterno o della sicurezza all’interno dei propri confini. Supportare politicamente, ideologicamente e finanziariamente il separatismo kashmiro (il primo ad agire in questa direzione fu Zia ul-Haq, nei suoi anni al potere, dal 1977 a 1988), è vitale per il Pakistan da un punto di vista militare, perché obbliga l’India a mantenere permanentemente nel Jammu e Kashmir una massiccia presenza di forze armate (più numerose e meglio equipaggiate dei pakistani). In chiave di sicurezza interna, invece, continuare a rinfocolare la miccia kashmira è sempre servito allo ‘Stato profondo’ pakistano (determinati settori militari e dell’intelligence) per indirizzare le crescenti pressioni dei gruppi islamisti nazionali contro un nemico esterno, anziché contro le autorità di Islamabad.
In fondo, è lo stesso gioco che il Pakistan conduce da anni in Afghanistan. I talebani sono una creazione dell’Isi ("Inter-Services Intelligence", i servizi segreti pakistani), un sottoprodotto della ribellione antisovietica dei mujahideen afghani negli anni Ottanta. Favorendone dopo il 1992 la conquista del potere nel Paese confinante, Islamabad non intendeva solo guadagnare un baluardo geopolitico a difesa del proprio confine nord-occidentale (in chiave anti-russa e anti-iraniana, ndr), ma anche un paracadute per attutire le spinte centrifughe dei fondamentalisti, che covavano all’interno della propria società. In particolare, dopo il settembre 2001, Musharraf ha giocato una pericolosa mano di poker, accodandosi da un lato alla guerra al terrore degli Stati Uniti e dall’altro ammiccando alla galassia islamista. Una strategia concepita per scongiurare il pericolo di un possibile conflitto civile nel Paese.
Con la caduta del regime del Mullah Omar per mano della coalizione internazionale a guida americana e la crescente presenza politica ed economica di Delhi in Afghanistan, in alternativa alle operazioni sotto copertura di organizzazioni terroristiche nel Jammu e Kashmir, i pakistani hanno lanciato un network islamista autoctono in India, che ruota intorno a gruppi come lo “Students’ Islamic Movement of India”, gli “Indian Mujahidden” e la “D-Company” di Dawood Ibrahim. La serie di attentati che ha funestato svariate città indiane negli ultimi tre anni, può essere letta come uno sforzo pakistano per destabilizzare il proprio vicino. Un altro modo per impegnare il maggior numero possibile di militari indiani internamente e allo stesso tempo dirottare le pulsioni fondamentaliste fuori dal Pakistan. Appare ogni giorno più chiaro che, insistendo su questa linea, Islamabad rischia di non riuscire più a controllare i demoni che ha scatenato. La sua campagna anti-indiana si fonda sulla convinzione di poter mantenere vivo un conflitto a ‘bassa intensità’ che logori l’India evitando una guerra convenzionale su vasta scala.
In questa strategia le Forze armate pakistane e l’Isi non hanno tenuto in debita considerazione tre variabili indipendenti. La prima, che i gruppi fondamentalisti kashmiri (“Lashkar-e-Tayiba”, “Jaysh-e-Muhammad”, “Hizbul Majahidden” su tutti) non ricevono finanziamenti solo da loro ma anche dalle organizzazioni islamiste non-governative saudite e da al-Qaeda. La seconda, che i nuovi mujahidden indiani si sono dimostrati meno gestibili (manipolabili) dei gruppi estremisti kashmiri. La terza, che l’esplosione negli ultimi 20 anni in India di un nazionalismo indù di chiara matrice terroristica (come l’Esercito di Shiva), introduce un ulteriore elemento di distorsione nel delicato equilibrio sociale tra la maggioranza indù e i 150 milioni di musulmani indiani.
Nonostante questo quadro a tinte fosche, qualche barlume di cambiamento comincia a intravedersi. Lo scorso mese, Asif Ali Zardari, il nuovo presidente pakistano, e Manmohan Singh, primo ministro di Delhi, si sono incontrati a New York a margine dell’Assemblea generale dell’Onu. I due hanno raggiunto un accordo di massima per infondere nuova linfa all’asfittico processo di pace indo-pakistano. Un primo passo concreto in tal senso, sarà l’apertura il prossimo 21 ottobre di un collegamento stradale tra Srinagar e Muzaffarbad (principale centro del Kashmir pakistano).
Di ben altro peso politico la scelta di Ashfaq Pervez Kiani, capo di stato maggiore delle Forze armate pakistane, che ha nominato il generale Ahmed Shuja Pasha – un suo fedelissimo – a capo dell’Isi, una decisione gradita sia a Zardari – che voleva a tutti i costi silurare il direttore uscente, Nadeem Taj – sia agli Usa. Pasha è stato fino al momento della nomina responsabile delle operazioni militari nell’area tribale di Bajaur. L’obiettivo dichiarato di Kiani è quello di riformare l’Isi. Per Washington questo proclama può suonare solo in un senso: fare piazza pulita di tutti quegli elementi doppiogiochisti che hanno finora spalleggiato i talebani e gli altri gruppi islamisti per estendere la mano di Islamabad a Kabul e in Kashmir. Sarà su questo punto che si potrà misurare fino a che punto la ‘nuova’ leadership pakistana intenda veramente sciogliere il nodo di Gordio che stringe il proprio Paese a India e Afghanistan.