Kenya, è l’odio etnico ad alimentare la violenza nel paese
02 Gennaio 2008
di Anna Bono
È difficile che Raila Odinga,
il candidato alla carica di capo di stato sconfitto alle elezioni del 27
dicembre scorso, rinunci a rivendicare la vittoria senza ottenere niente in
cambio: non adesso che gli osservatori dell’Unione Europea hanno riveduto il
loro giudizio positivo sull’andamento del voto e parlano di brogli, gli Stati
Uniti si sono rimangiati le congratulazioni al rieletto Mwai Kibaki e persino
Samuel Kivuito, presidente della
Commissione Elettorale che aveva proclamato Kibaki vincitore, si dice perplesso
sull’esito della consultazione e parla di pressioni esercitate dalla coalizione
del presidente.
Neanche Kibaki, però, sembra disposto a cedere e, dopo essersi
affrettato a prestare giuramento, ha già persino convocato il parlamento per
discutere la situazione. Proprio la futura composizione di quest’assemblea
peraltro rafforza i dubbi sull’andamento delle presidenziali perché più della
metà dei ministri del governo uscente di Kibaki non sono stati rieletti in
parlamento il che la dice lunga sull’apprezzamento del loro operato da parte
della popolazione.
Né potrebbe essere
diversamente. Infatti durante il suo primo mandato Mwai Kibaki non ha
realizzato il programma elettorale che prometteva lotta alla corruzione, buon
governo e democratizzazione. La conseguenza è che, malgrado alcune buone
prestazioni economiche, il Kenya continua a essere un paese povero, del tutto
carente in fatto di servizi e infrastrutture, popolato da milioni di giovani
senza prospettive che vivono di espedienti nelle bidonville dei centri urbani.
È su questi giovani che Odinga
ha fatto presa promettendo “prosperità per tutti”, ovviamente senza spiegare
come. Ha anche conquistato il voto islamico in un momento critico nei rapporti
tra comunità islamiche e governo, in seguito alla collaborazione fornita da
Kibaki nella cattura degli esponenti delle Corti Islamiche legati ad al Qaeda fuggiti dalla Somalia nel 2006.
Naturalmente ha poi giocato, come tutti gli altri candidati, la carta etnica,
chiedendo e ottenendo il voto dei Luo, la sua tribù, in conflitto con l’etnia
Kikuyu a cui appartiene Kibaki fin dai tempi della lotta per l’indipendenza e
in realtà da sempre, salvo il breve periodo della pacificazione imposta dai
colonizzatori britannici.
Ed è proprio il fattore etnico
quello che minaccia adesso di rendere ingovernabile la situazione.
La possibilità di una
soluzione alla crisi politica esiste e già la diplomazia internazionale si è
attivata in tal senso. Si tratta, come si è fatto in molti altri paesi
africani, di dar vita a un cosiddetto ‘governo di unità nazionale’ vale a dire
aperto anche all’opposizione. In altre parole Kibaki e Odinga potrebbero essere
convinti a spartirsi i ministeri, e quindi il potere, piuttosto che affrontare
i costi e i rischi di un conflitto.
Si capisce che non è una buona
soluzione, però servirebbe a garantire almeno per un po’ di tempo stabilità,
nella speranza che intanto maturino personalità politiche che ambiscano
finalmente a realizzare dei veri programmi di sviluppo economico e sociale e
siano capaci di farlo. Ma soprattutto non è detto che questo valga a placare
l’odio etnico che è all’origine delle stragi di questi giorni perché si tratta
di un sentimento profondo e radicato nelle popolazioni africane che
costruiscono sull’appartenenza etnica la loro identità e nutrono nei confronti
degli estranei diffidenza, risentimento e ostilità.
Quella dell’Africa è una
storia di conflitti tribali. Le comunità etniche si sono sempre contese le
scarse e irregolari risorse che le economie di sussistenza sono in grado di
produrre e continuano a farlo: nei loro territori tribali agricoltori e pastori combattono come in
passato per assicurarsi pozzi, sorgenti e terre, i pastori si contendono i
pascoli, fanno razzia del bestiame delle altre comunità di pastori e
saccheggiano raccolti, bestiame e beni delle comunità agricole. Gli abitanti
dei centri urbani lottano invece per il controllo di un quartiere, di una
strada, di un genere di commercio, di un tipo di lavoro o di attività illegale
e il saccheggio prende di mira abitazioni e soprattutto negozi ogni volta che
se ne presenta l’opportunità. Nell’Africa indipendente inoltre la preda più
ambita del conflitto inter e intra etnico è diventata l’apparato statale perché
chi controlla le istituzioni politiche e amministrative può saccheggiare
risorse di valore incalcolabile: tutte quelle naturali, man mano scoperte e
messe a frutto quasi ovunque, alle quali si aggiungono gli immensi apporti
finanziari della cooperazione internazionale allo sviluppo.
Per questo i Luo stanno dando
la caccia ai Kikuyu e alle loro proprietà: uccidono, rubano, distruggono e
bruciano quel che resta. Altrettanto stanno facendo altre etnie minori sui
rispettivi punti di faglia in tutto il paese. Presto, se gli scontri non
finiranno, i Kikuyu reagiranno, hanno sempre avuto la meglio nelle guerre
tribali.
Su questo aspetto della crisi
kenyana la diplomazia internazionale non ha modo di intervenire e la stessa
volontà dei leader nazionali diventa a un certo punto ininfluente.