Kenya: governo di unità nazionale per uscire dalla crisi
03 Marzo 2008
di Anna Bono
In Kenya, dopo due mesi di scontri iniziati all’indomani
delle contestate elezioni generali del 27 dicembre, la crisi politica si è
risolta con un accordo tra il presidente Mwai Kibaki e il leader
dell’opposizione Raila Odinga per l’istituzione della carica di primo ministro,
affida a quest’ultimo, e la formazione di un governo di unità nazionale nel
quale i ministeri saranno spartiti a metà. Restano da discutere le funzioni del
premier, che dovrebbero bilanciare e ridurre quelle del presidente, e l’attribuzione
dei dicasteri: di solito in Africa chi detiene la maggioranza non cede quello
degli interni e quello della difesa che consentono il controllo delle forze
dell’ordine e dell’esercito e nei paesi produttori di petrolio cerca di
conservare il ministero delle risorse naturali. Sempre ambito è anche quello
della cooperazione perché permette di disporre dei fondi stanziati dagli
organismi internazionali per lo sviluppo e offerti a vario titolo dai donors stranieri.
In sostanza, un governo di unità nazionale in Africa si forma quando le parti
contendenti si rendono conto di non riuscire a prevalere sugli avversari e si
accordano per dividersi il potere ovvero l’accesso alle casse dello stato e
agli altri vantaggi che l’apparato statale offre. La stretta di mano tra i due
leader kenyani significa questo e quindi non c’è di che far festa. Tuttavia è
stata accolta con sollievo. Ristabilire in Kenya condizioni di stabilità,
infatti, oltre alla speranza che serva a riportare a livelli tollerabili
l’endemica conflittualità tribale, è essenziale in un’area geografica tra le
più critiche del continente africano. Basta dare uno sguardo alla cartina
geografica per capirlo.
A nord il paese confina, partendo da est, con Somalia, Etiopia e Sudan. In
Somalia è in corso una guerra civile che dura da 17 anni. Dopo la caduta del
dittatore Siad Barre nel 1991, i clan e i lignaggi in cui si struttura la
popolazione non sono mai riusciti a concordare una soddisfacente spartizione
del potere politico. Neanche gli interminabili negoziati svoltisi in Kenya, dai
quali sono nate nel 2004 le attuali istituzioni politiche di transizione, hanno
convinto i ‘signori della guerra’ a deporre le armi. Mentre a Nairobi si
dividevano i ministeri e i 275 seggi del parlamento – 61 a ciascuno dei quattro
clan principali e 31 ai clan minori – in patria continuavano a combattersi,
soprattutto a Mogadiscio e nei maggiori centri urbani conquistati infine, nel
2006, pochi mesi dopo il trasferimento in patria delle cariche politiche, da
una coalizione di lignaggi legati al terrorismo internazionale di matrice
islamica, le Corti Islamiche. Solo l’intervento dell’Etiopia all’inizio del
2007 ha impedito alle Corti di avere il sopravvento, ma il pericolo non è
scongiurato. Uno stillicidio di morti, scontri a fuoco e attentati quotidiani
nella capitale e in altre località, un andirivieni di sfollati disperati e
privi di tutto, accampati sui bordi delle strade principali e ammassati sul
confine con il Kenya in attesa di poterlo varcare legalmente o di nascosto:
questo è lo scenario attuale dell’ex colonia italiana. Una missione di pace
dell’Unione Africana autorizzata lo scorso anno dalle Nazioni Unite si è
dimostrata del tutto incapace di gestire la situazione, anche perché solo due
degli stati africani che si erano impegnati a inviare truppe, per un totale di
8.000 soldati, hanno mantenuto la parola: l’Uganda quasi subito con 1.500 unità
e il Burundi poche settimane fa, con alcune centinaia di militari. Per questo
si sollecita da mesi l’intervento diretto delle Nazioni Unite e intanto sono le
truppe etiopi a contenere le milizie antigovernative tuttora attive nel paese.
In Etiopia, invece, il primo ministro Melles Zenawi, al potere dal 1991 grazie
a un colpo di stato, tiene in pugno la situazione ad ogni costo. Fino al 2005
il suo partito deteneva il 99% dei seggi parlamentari, ma nel 2005 le prime
elezioni generali libere hanno ne intaccato la supremazia consegnando
all’opposizione persino l’amministrazione della capitale. Zenawi ha reagito
arrestando centinaia di candidati dell’opposizione neoeletti, incluso il nuovo
sindaco di Addis Abeba, mai entrato in carica, e poi reprimendo senza mezze
misure le manifestazioni di protesta seguite agli arresti arbitrari. Da mesi
inoltre sono riprese le ostilità nell’Ogaden, la regione al confine con la
Somalia abitata in prevalenza da popolazioni somale, che dal 1984 rivendica
l’indipendenza. Infine si stanno facendo sempre più tesi i rapporti con
l’Eritrea. Tra il 1998 e il 2000 i due stati hanno combattuto una disastrosa
guerra per la ridefinizione del lungo confine che li separa. Gli accordi di
pace che hanno messo fine al conflitto finora non sono stati rispettati
nonostante la presenza dal 2000 di una missione delle Nazioni Unite, la Unmee,
che ha creato una zona di sicurezza e che dovrebbe sovrintendere alla
individuazione del nuovo tracciato di confine.
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