Kim Jong-il, uno in meno nell’Asse del male?
30 Giugno 2008
Action for action. Questo è il principio messo in campo dal dipartimento di Stato americano di Condoleezza Rice nella spinosa partita del nucleare nord coreano. Il presidente Bush lo ha ribadito al margine della conferenza stampa ad hoc rilasciata alla Casa Bianca il 27 giugno.
E’ così che gli estenuanti negoziati diplomatici voluti da Washington e ricondotti, sin dal 2003, al cosiddetto gruppo dei Sei (Corea del Sud, Corea del Nord, USA, Giappone, Russia e Cina) hanno condotto ad un primo risultato importante: venerdì scorso il governo di Pyongyang ha raso al suolo la torre di raffreddamento del centro di ricerca scientifica nucleare di Pyongbyon, nella provincia del Nord Pyongan. Questa torre di raffreddamento, esplosa di fronte ad una troupe che ha prontamente filmato l’evento, faceva parte di un complesso in passato utilizzato, secondo fonti USA e AIEA, per la produzione di plutonio (elemento fondamentale per la creazione di ordigni a fissione nucleare).
Il despota Kim Jong-il con questa mossa, rimischia le carte, sapendo di doversi muovere verso quella mezza ‘carota’ offertagli da Washington: una prima, blanda normalizzazione in vista di un reinserimento della Corea del Nord nella comunità internazionale. Il presidente Bush si è infatti reso disponibile a depennare il suo regime dalla lista degli Stati che sostengono il terrorismo (SST) e a revocare il Trading with the enemy act (TWEA), ovvero quella normativa approvata dal Congresso nel lontano 1917 che attribuisce alla presidenza statunitense la facoltà di stringere i cordoni del commercio internazionale in tempo di guerra contro i propri nemici. Il Presidente H. Truman ne fece uso proprio contro la Corea del Nord nel 1950 e da allora sono rimaste vigenti contro Pyongyang. Do ut des o se preferite action for action.
In realtà si tratta per il momento solo di molto fumo. Le violazioni nord coreane su capitoli come diritti umani, progetti di sviluppo balistici e proliferazione nucleare (non ultimo il test nucleare dell’ottobre del 2006) obbligano il governo USA ad applicare ben altre normative congressuali, ancora molto restrittive nei confronti di Pyongyang. Il colpo di scena comunque non giunge inaspettato alle parti al tavolo delle trattative. La detonazione della torre di Pyongbyon fa seguito infatti alla dichiarazione che il governo di Kim Jong-il ha fatto pervenire giovedì 26 giugno al governo popolare cinese (presidente del tavolo a Sei), dove si legge che “al momento” i nord coreani non sono “impegnati in alcuna attività tesa all’arricchimento di uranio o alla proliferazione nucleare e ci impegniamo a non promuoverne in futuro”.
Tutti gli attori coinvolti nel negoziato, e tanto più gli USA, sanno che Pyongyang ha urgenza di uscire dall’angolo e per un motivo su tutti: si pensi alle plurime carestie che negli ultimi anni hanno afflitto il popolo nord coreano e che si sono verificate soprattutto per la mancanza di sufficienti terreni coltivabili. Una crisi alimentare, quella nord coreana, acuitasi ancor più quando il 9 ottobre 2006, Pyongyang dichiarò, alla vigilia della seconda fase del quinto round di negoziazioni del 2+4, di aver sperimentato con successo un ordigno nucleare sotterraneo (confermato due giorni dopo da rilevazioni satellitari statunitensi); fatto che indusse il pur benevolo governo popolare cinese (maggiore esportatore di petrolio e beni alimentari verso la Nord Corea) a sostenere la risoluzione ONU che imponeva sanzioni più dure economiche e commerciali nei confronti di Pyongyang, con tanto di annesso capitolo sui beni di lusso (pare che il caviale russo fosse molto in voga alla corte di Kim jong-il).
Pechino, da parte sua, ha lavorato molto affinché il gesto distensivo di Pyongyang cadesse in questo preciso momento: tra poco più di un mese le Olimpiadi di Pechino si apriranno ufficialmente e qualsiasi focolare di tensione nella regione potrebbe mettere a serio repentaglio il successo della manifestazione sportiva. In più la Cina non sembra più disposta a mettere a repentaglio le proprie relazioni con gli USA sull’altare di vecchie affinità ideologiche con la Repubblica nord coreana. In più il governo popolare cinese è impegnato in un certosino lavoro di ricucitura delle relazioni con il Giappone e non solo (vedi Taiwan). E’ di pochi giorni fa la notizia dell’approdo, in una base navale cinese nel Guangdong, della fregata giapponese Sazanami, primo naviglio militare giapponese a varcare le acque di un porto cinese dalla fine della seconda guerra mondiale. Ecco perché il dossier nord coreano può tornare utile a Pechino in un’ottica distensiva con il governo giapponese di Fukuda.
Tokyo è impegnata a sua volta in una partita tutta sua sul dossier nucleare, e non solo all’insegna di legittimi interessi strategico-militari. Negli ultimi anni, infatti, il governo giapponese è stato, assieme al governo sud coreano, il maggiore bersaglio degli atti d’aggressione militare di Pyongyang. In particolare Tokyo sembra intenzionata a non voler lasciare cadere nel vuoto la questione relativa alla restituzione di quei settanta e più cittadini giapponesi che tra il 1977 e il 1983 i servizi di intelligence nord coreani rapirono sul territorio giapponese. Ancora oggi Kim Jong-il nega che si sia trattato di più di tredici casi di rapimento allorché Tokyo vuole che piena luce sia fatta sulla questione. A tal proposito, nella stessa conferenza stampa di venerdì, il Presidente Bush ha voluto rassicurare l’alleato giapponese sul suo impegno per la risoluzione della faccenda e ha ricordato di aver anche ricevuto parenti dei rapiti giapponesi nel proprio studio ovale.
Per l’amministrazione Bush è comunque giunto il momento di fare un bilancio del suo operato in politica estera. La Casa Bianca considera quella sul dossier nucleare nord coreano una vittoria diplomatica. Il quadro altrove (Iraq e Iran) è più incerto e Bush aveva bisogno di un successo tangibile, magari da poter offrire a John McCain come cadeau d’adieu in vista delle prossime presidenziali.
Ad ogni modo, per Pyongyang la via della normalizzazione diplomatica è ancora lontanissima. Kim Jong-il sa che il suo tempo è quasi scaduto e che una transizione (ormai prossima) in un regime al collasso, sarebbe più semplice senza ordigni nucleari. “Diplomacy works!”, ha affermato Condoleezza Rice, ma le vere intenzioni di Pyongyang non sono del tutto chiare, né tanto meno la distruzione della torre di Pyongbyon ha allentato il pressing degli USA, che vogliono maggiori informazioni quanto a numero di testate e quantità di materiale fissile di cui la Corea del nord ancora dispone. Sull’argomento è entrato a piedi uniti John Bolton, già ambasciatore americano alle Nazioni Unite, incaricato del dossier nord coreano. Bolton, in un editoriale sul Wall Street Journal attacca senza mezzi l’amministrazione Bush per aver accettato da parte di Pyongyang una dichiarazione di rinuncia al suo programma nucleare “limitata, incompleta e rapportata alla realtà quasi certamente disonesta”. Bush, dice Bolton, è caduto nella trappola del “diniego, dell’inganno e del camuffamento” che il regime di Kim Jong-il gli ha abilmente teso in pieno stile sovietico.