‘Kony2012’ non sarà l’ultima bolla mediatica a cui ci toccherà assistere
14 Marzo 2012
Il meraviglioso mondo di internet. Le mille opportunità del mezzo telematico. Quanti i tecno-entusiasti che decantano ogni giorno il magico potere della nuova comunità degli uomini. Non passa giorno senza che qualche esperto di comunicazione, giornalista, blogger, imprenditore non getti sul tavolo – nel strano gioco del terzo millennio, il number dropping – qualche numero del fenomeno più straordinariamente (e violentemente) rivoluzionario degli ultimi tre decenni: la connettività mondiale. Ottocento milioni d’utenti Facebook, settecento miliardi d’email inviate ogni giorno nel pianeta, miliardi di esseri umani in costante comunicazione. Vertigine.
La rete, come la luna, ha però anche il suo lato oscuro che si impone lentamente alle genti del mondo in una dittatura delle opinioni legittime ed effimere. Il fatto che siano tali, però, non significa che di per sé esse possano modificare il corso degli eventi politici. Per far ciò, esse hanno bisogno di un altro requisito fondamentale: una larga diffusione. Niente di nuovo sotto il cielo. Tanto più le opinioni legittime sono diffuse, tanto più esse si tramutano in verità. E’ così che dalla dòxa, l’opinione appunto, si passa all’epistème, la verità delle cose.
La storia del video realizzato dalla ong californiana ‘Invisible Children’ su Joseph Kony, uno dei tanti signori della guerra nell’Africa sub-sahariana, rientra a pennello nel genere di nuove storie telematiche in circolazione di questi tempi, le leggende nello stramaledetto ‘villaggio globale’ di MacLuhan. Più di 78 milioni di persone, quasi l’intera popolazione della Germania per intenderci, hanno visto negli ultimi giorni il video ‘Kony2012’ sul canale youtube dell’ong di San Diego. La potente Oprah Winfrey lo ha spinto su twitter. Mia Farrow (la scopriamo ancora in vita) ha fatto lo stesso. Di fatto negli Stati Uniti il video ha letteralmente sbancato. Uno tsunami mediatico la cui onda lunga è arrivata sino alle ‘province europee’ dell’impero (addirittura nelle lande italiche).
Andiamo per ordine, però. Jason Russell, regista ‘fighetto’ e uno dei fondatori di ‘Invisible Children’, associazione attiva contro la tratta dei bambini guerrieri, produce un video da trenta minuti sulle atrocità che presuntamente (è bene ricordarlo) Joseph Kony, capo della della Lord’s resistance army e oggi latitante nella giungla del centro Africa, avrebbe commesso tra il finire degli anni ’80 e l’inizio degli anni 2000 in Uganda. In ‘Kony2012’ il capo militare ugandese è accusato, attraverso una serie di video testimonianze date da bei ragazzi ormai cresciuti delle tribù degli Acholi, d’aver militarizzato più di 30 mila bambini e d’aver lasciato dietro di sé una scia di morte e atroce arbitrarietà.
Il video. Trenta minuti con ritmo, narrativa e tanto fumo. Abile, convincente, furbesco perché ruba emozioni e tempo. In una parola: obamiano. Per essere un video prodotto con non troppi mezzi, è ben filmato e montato in modo attento. Insomma bravi. Militanti, a volte insopportabili, ma bravi. L’isola emotiva dove può trascinarti Kony2012 ha infatti due estremità: tenera compassione la prima ma anche profonda rabbia (e non solo per il carnefice Kony, neo-Adolfo e Osama).
Un picco emotivo quest’ultimo che dà la misure del perché negli Stati Uniti Jason Russell et alia, così come la stessa ‘Invisible Children’ e ‘Kony2012’ si siano tirati dietro le pacate ire di bastioni del progressismo giornalistico del calibro del ‘New York Times’ e del ‘Washington Post’, così come bordate dalle ridotte di ‘Foreign Policy’, che del WP Group è parte. Rimprovero implicito: guai a chi pensi di far credere che ‘Kony2012’ rientri nell’infotainment, ovvero in quel grifone che è la spettacolarizzazione dell’informazione. Quanto a quelli espliciti: video sommario, mal informato, buonista e pantofolaio. Anche un poco paternalista: i poveri neri non ce la fanno da soli e secondo Russell avrebbero bisogno dell’aiuto di Stati Uniti – già sostanziato in 100 soldati consiglieri militari dell’esercito ugandese – per acciuffare il cattivo pazzoide, imboscato nella giungla nera.
Non ne parla così crudamente Anna Bono, docente Storia e istituzioni dell’Africa presso la facoltà di Scienze politiche di Torino e alle spalle 12 anni di ricerca sul campo nel continente africano, ma non cela un senso di frustrazione quando le chiediamo del video. “Ho visto ‘Kony2012’ fino alla fine e sono arrabbiata per l’occasione persa”, dice a l’Occidentale. “Quando si raggiungono più settanta milioni di persone – aggiunge la Bono – e si finisce col dare una visione così distorta delle dinamiche politiche e tribali di una determinata area, mi rattristo”.
Anna Bono se la prende in particolare con il taglio del video: “Jason Russell non vuole far emergere le responsabilità del governo ugandese, di quello centrafricano o di quello popolare congolese per la mancata cattura di Kony. No. Ovviamente mira al governo statunitense”. E conclude: “Sotto, sotto c’è quel solito paternalismo nei confronti degli africani, lo stesso che sta riaffiorando anche in Italia quando invece di prendersela con il governo nigeriano per la gestione dell’attacco al covo dei sequestratori di Lamolinara, è il governo inglese a finire nel mirino”.
Comunque si legga il contenuto di ‘Kony2012’ – di cui nell’arco di una settimana non si parlerà più, a meno che l’ong in questione non si butti nelle presidenziali Usa e non usi la quantità enorme di risorse reperite per restare sulla breccia -, il fenomeno di cui si è parlato fa riaffiorare il solito problema, molto attuale in tempi di bolle mediatiche: chi definisce l’agenda politica nelle società democratiche nazionali spesso messe sotto pressione dalla categoria politologica dell’opinione pubblica internazionale?
Chi scrive e tutti coloro che hanno dovuto raccontare il caso ‘Kony2012’ (magari sollecitati da capo redattori se non proprio direttori), lo hanno fatto perché ‘settanta milioni di persone hanno visto un video’. La notizia è che più dell’1% della popolazione mondiale in un lasso di tempo di qualche giorno abbia consultato uno stesso contenuto. E non è neanche importante cosa mostrasse quel file da 30 minuti caricato su youtube da un gruppetto di trenta-quarantenni bianchi, ricchi, felici e californiani innamorati dell’idea d’essere utili a un altro gruppo, traumatizzato, di africani più o meno coetanei.
In una società d’opinione relativa, chiunque si svegli la mattina con dieci mila dollari da mettere dentro un sito o un video, può far passare – con abilità, intraprendenza e la fortuna giusta – un qualsiasi messaggio dentro il grande flusso mediatico della rete. Può farlo evocando la necessità dell’aiuto a un gruppo di ragazzi costretti a sparare, strappati alla gaiezza della tenera età e, parimenti, può farlo evocando i peggiori sentimenti possibili, i quali quando vengono moltiplicati nell’etere, producono guasti morali inimmaginabili a comunità sempre più dipendenti dalla fornitura di simboli e linguaggi internettiani.
Certo, nessuna censura è possibile. “E’ la sfida della libertà d’espressione”, pontificherebbero i più. Fatto sta che il dilemma resta sul tavolo, insoluto. La politica, ancora nazionale e perciò svantaggiata rispetto all’a-territorialità delle vaste comunità effimere che invece internet favorisce, deve inseguire o no le bolle mediatiche? Deve assecondare la semplificazione della realtà che la rete impone al messaggio politico – non a caso Noam Cohen sul NYTimes riferendosi a ‘Kony2012’ parla proprio di un “senso di giusto e sbagliato da bambino di 5 anni” -, oppure deve accettare la sfida e il peso di spiegare ai cittadini che i fenomeni della politica sono complessi come complessa è la natura morale e fisica dell’uomo?
Se la politica mancherà anche questo appello, un giorno potremmo accorgerci che 30 minuti non bastano per capire quel che succede a migliaia e migliaia di kilometri dalle nostre case e, peggio ancora, che il solo fatto che altri milioni di persone si siano lasciati convincere da un abile montaggio video e un accattivante musichetta, non basta a fare di un’opinione una verità.