Kosovo indipendente, ora tutto dipende da Belgrado
18 Febbraio 2008
Pristina, domenica 17 febbraio. L’atmosfera è quella da finale di coppa del mondo. La squadra locale ha vinto e la gente festeggia per strada fino a notte inoltrata. La differenza è che il premio in palio è l’indipendenza dalla Serbia, e non importa che la temperatura sia scesa a meno cinque. La festa è festa.
Il Kosovo è diventato lo stato più giovane d’Europa. Passeggio per il corso con la mia amica di Belgrado Jelena che vive a Pristina da cinque anni e la sua ospite Nada. I ragazzi le salutano con un ironico «arrivederci in Europa». E loro sorridono con malcelata amarezza. Oggi pomeriggio il primo ministro serbo Kostunica parlerà alla nazione, ha annunciato la radio. «Di che? e chi lo ascolterà?» si chiede Nadia. Ovviamente Nadia e Jelena non sono rappresentative della popolazione serba, che in gran parte (più del 40%) è a favore della politica nazionalista di Kostunica e dei radicali di Tomislav Nikolic. Kostunica e Nikolic non si rassegneranno mai alla perdita della Serbia. Nadia e Jelena, non ancora trentenni, sono reduci del movimento studentesco Otpor che contribuì alla caduta di Milosevic nel 2000. Sono la voce di un pubblico giovane che ne ha abbastanza delle avventure nazionaliste che hanno marginalizzato la Serbia. Almeno per oggi, invidiano i loro vicini poveri, gli Albanesi, per aver raggiunto l’obiettivo che loro continua a sfuggire: l’avvicinamento all’Europa, alla modernità, al benessere e la pace.
A parte l’entusiasmo spontaneo della gente, che cammina per strada sventolando la bandiera rossa e nera albanese, a stelle e strisce americana e blu europea (ho anche visto un paio di tricolori), la coreografia ufficiale è stata attentamente studiata. In mattinata, il primo ministro Hashim Thaci si è recato in parlamento per richiedere una seduta straordinaria dell’assemblea. A mezzogiorno la riunione, alle 3 la dichiarazione d’indipendenza. La filarmonica in serata suonerà Beethoven “L’inno alla gioia”, il
Dal punto di vista locale, le preoccupazioni degli analisti occidentali sono esagerate. Almeno per oggi. L’indipendenza è in gran parte simbolica, perché il Kosovo sarà ancora sotto il monitoraggio dell’Unione Europea – soprattutto il sistema giudiziario e la polizia – e la protezione della NATO – forte di 17 mila truppe. Ma il senso di sollievo per aver finalmente tagliato formalmente i legami istituzionali con la Serbia è enorme. Viaggiando da New York per Pristina ho incontrato decine di albanesi che rientravano a casa, anche solo per due o tre giorni, quasi inebriati di gioia: “Abbiamo aspettato questo momento tutta la vita,” è il ritornello più sentito.
Ma adesso cosa succederà? chiedo. “Adesso finalmente potremo fare sciopero contro il governo”, mi risponde una maestra elementare che guadagna 150 euro al mese e che per anni non ha protestato perché la classe politica doveva restare unita e lottare per l’indipendenza. Adesso, in poche parole, i kosovari potranno vivere in un paese normale, dove l’opposizione non è solo causata da rivalità personali e di potere ma da idee politiche diverse. Tutti sanno benissimo che l’indipendenza non risolverà immediatamente i problemi economici, politici, e sociali del paese, ma è un primo passo. E il più importante.
«Zio, è finita» è la scritta che compare su un enorme poster con il ritratto di Ademi Jashari, l’eroe dell’UCK che nel marzo del 1998 fu ucciso con 20 membri della sua famiglia nella sua propria casa, durante un assedio di tre giorni che coinvolse la polizia e l’esercito di Milosevic. La guerra è veramente finita solo oggi. Non ho sentito la stessa gioia ed entusiasmo dal giorno in cui la NATO è entrata in Kosovo il 13 giugno del 1999.
Sabato sera, a fine giornata, i giornalisti venuti da tutto il mondo chiaccheravano nei bar e ristoranti. Per molti, a parte il bagno di folla tra i festeggianti, la storia del giorno è stata quella delle enclavi serbe. Come stanno i serbi, come si sentono, cosa faranno? Hanno trovato poche risposte nuove a queste domande, che vengono poste continuamente alla stessa gente ormai da anni. Hanno trovato la stessa rabbia mista a rassegnazione, lo stesso senso di isolamento. E la stessa volontà di non collaborare mai con le istituzioni del Kosovo, con l’ONU e con l’UE. Jelena dirige il giornale in lingua serba pubblicato in Kosovo e conosce bene la situazione. Le pongo la stessa domanda. «Non faranno niente i serbi delle enclavi fino a quando non partirà l’ordine di mobilitarsi da Belgrado», mi risponde. Nei giorni che seguiranno si saprà se il Kosovo potrà diventare uno stato indipendente senza ulteriori tensioni, o se l’opzione della violenza sarà ancora una volta quella preferita dalla leadership nazionalista serba.