Kosovo indipendente: un’occasione da non perdere per stabilizzare i Balcani

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Kosovo indipendente: un’occasione da non perdere per stabilizzare i Balcani

Kosovo indipendente: un’occasione da non perdere per stabilizzare i Balcani

18 Febbraio 2008

Tanto tuonò che piovve, ma non sembra diluviare. L’ex
provincia serba del Kosovo, da nove anni sotto amministrazione delle Nazioni
Unite, ieri ha formalmente dichiarato la propria indipendenza da Belgrado,
aprendo una transizione delicata ma non impossibile verso la stabilizzazione
del Balcani.

Domenica 17 febbraio, i 109 deputati del parlamento del
Kosovo  hanno approvato all’unanimità la
dichiarazione di indipendenza letta dal primo ministro Hashim Thaci, vincitore
delle ultime elezioni e capo di un governo di unità nazionale. Erano volutamente
assenti dal parlamento gli 11 eletti delle minoranze etniche, in primo luogo quella
serba, che hanno deciso di testimoniare così la loro contrarietà alla nascita
di uno stato in cui dovranno in ogni caso vivere. Il 90% della popolazione
kosovara è di etnia albanese e religione musulmana, mentre la minoranza serba e
ortodossa è concentrata nella parte settentrionale del paese, a nord della
città di Mitrovica, salvo alcune piccolissime enclave nel sud. La minoranza serba
è oggi protetta, ironia della sorte, dalla stessa Nato che nel 1999 bombardava
i serbi per porre fine alle loro persecuzioni etniche, ai limiti del genocidio,
perpetuate contro gli albanesi. Oggi circa 20.000 soldati alleati della KFOR
sono schierati nella regione per garantire la sicurezza e impedire, armi alla
mano, che la spirale della violenza etnica riprenda. In questo senso, le prime
ore successive alla dichiarazione d’indipendenza sembrano incoraggianti: dopo
il tanto atteso e temuto momento si è registrato un solo lieve episodio di
violenza, una bomba carta lanciata contro un edificio dell’Onu a Mitrovica, in
un paese in cui ogni famiglia ha un fucile mitragliatore in armadio pronto
all’uso. Anche a Belgrado, dove il premier Vojislav Kostunica ha affermato che la Serbia non riconoscerà mai
un “falso stato” come il Kosovo, i disordini nella notte di domenica
hanno visto in strada solo poche centinaia di giovani nazionalisti, facilmente
dispersi dalla polizia. D’altronde, al di là della retorica nazionalista, la
leadership serba moderata vincitrice delle ultime elezioni sa che non può
impedire con la forza l’indipendenza del Kosovo, che sanzioni economiche come
la chiusura dei confini danneggerebbero solo l’enclave serba nella regione, e
che in fin dei conti i rapporti politici ed economici con l’Europa sono più
importanti dell’orgoglio nazionale ferito. Anche in Macedonia e in Albania, i
due vicini meridionali del Kosovo, i governi e le forze dell’ordine cercano di
mantenere i nervi saldi e di non avvalorare la percezione di una rivincita
albanese sulla Serbia, per non mettere a rischio la pace e le loro chance di
aderire presto alla Nato e all’Unione Europea come ha già fatto la Slovenia.

Thaci e la leadership kosovara si sono sforzati di rassicurare
la minoranza serba proclamando che il Kosovo è la patria di tutti i suoi
cittadini, accogliendo con favore la presenza internazionale e impegnandosi a
costruire il nuovo stato seguendo le indicazioni del cosiddetto “Piano
Athisaari”. Tale piano, preparato l’anno scorso dall’inviato dell’Onu Marthi
Athissari, prevede una “indipendenza supervisionata” della regione e ampie
garanzie a livello politico, giuridico ed economico per la minoranza serba,
costituendo la base per la costruzione di uno stato pacifico e democratico.
Approvato dagli albanesi del Kosovo ma non dai serbi, ha il pieno sostegno
degli Stati Uniti e dell’Unione Europea ma è osteggiato dalla Russia. Proprio
la ferrea opposizione di Mosca ha impedito l’approvazione del piano da parte del
Consiglio di Sicurezza, ha rafforzato l’opposizione di Belgrado
all’indipendenza supervisionata e vanificato gli sforzi per un riconoscimento della
comunità internazionale del neonato stato attraverso le Nazioni Unite. Posti di
fronte allo stallo per tutto il 2007, gli Stati Uniti hanno deciso di andare
avanti con l’indipendenza del Kosovo, e lo scorso dicembre anche l’Unione
Europea si è assunta con coraggio le proprie responsabilità prendendo
ufficialmente atto che i negoziati serbo-kosovari erano falliti e inviando una
propria missione di 2.000 uomini in Kosovo. Tale missione, decisa nell’ambito
della Politica europea di sicurezza e difesa (Pesd), sostituirà quella dell’Onu
operante dal 1999 con il compito di assistere la realizzazione del piano
Athisaari attraverso la costruzione delle necessarie istituzioni giudiziarie,
di polizia, amministrative, ecc. La missione Pesd “EULEX”, confermata da
Bruxelles pochi giorni prima della proclamazione dell’indipendenza, coopererà
con quella Nato incaricata di garantire la sicurezza.

Occorrerà adesso vedere se alla cooperazione sul campo tra
Europa e Stati Uniti, vitale per il futuro del Kosovo e dei Balcani, si
accompagnerà anche una posizione politica comune in merito al riconoscimento
internazionale del neonato stato. Washington è sempre stata favorevole
all’indipendenza, vista come unico mezzo per separare le parti a lungo in lotta
e permettere la loro pacifica coesistenza, ma al momento si è astenuta dal
riconoscere la dichiarazione di Thaci nella speranza di assumere una posizione
comune con gli europei. In Europa Berlino, Londra, Roma e Parigi sono orientate
verso il riconoscimento, appoggiati da Belgio, Bulgaria, Slovacchia, Slovenia e
dagli stati nord europei che sostengono con forza il piano dell’ex premier finlandese
Athisaari. Contrari all’indipendenza unilaterale del Kosovo sono invece Spagna,
Grecia, Romania e Cipro che temono si costituisca un precedente internazionale
che rafforzerebbe le pretese indipendentiste delle minoranze etniche al loro
interno, ad esempio baschi e catalani.

A preoccupare molti stati europei è inoltre la posizione
della Russia, che ha chiesto la convocazione di una riunione straordinaria del
Consiglio di Sicurezza dell’Onu per annullare la dichiarazione di indipendenza
del Kosovo. Su tale linea Mosca è stata cautamente appoggiata, come accade
ormai da qualche tempo quando si tratta di contrapposti all’Occidente, anche
dalla Cina che si è detta “profondamente preoccupata” dalla dichiarazione
unilaterale d’indipendenza e chiede la riapertura dei negoziati con la Serbia. La riunione si è svolta
ma il tentativo russo è stato respinto dagli stati occidentali presenti in
consiglio, che hanno affermato che l’Unione Europea e la Nato si assumeranno la
responsabilità della stabilità nella regione. “Gli eventi di oggi (…)
rappresentano la conclusione di un processo che ha esaurito tutte le strade
alla ricerca di un risultato negoziato”, ha affermato l’ambasciatore belga
Johan Verbeke in un comunicato condiviso da Belgio, Francia, Italia, Gran
Bretagna, Croazia, Germania e Stati Uniti, e che ha avuto anche il sostegno
della Slovenia, presidente di turno dell’Ue.

Si attende ora la posizione ufficiale dell’Ue, e quanto
peserà sugli europei la pressione russa per il mantenimento del fragile status
quo lo si vedrà già oggi pomeriggio, quando i ministri degli Esteri dei 27
paesi membri dell’Ue si riuniranno a Bruxelles per discutere la questione. Nel
caso in cui non si raggiunga il consenso necessario per una posizione ufficiale
dell’Unione sul riconoscimento del Kosovo, si potrebbe lasciare che ogni stato
si esprima autonomamente in merito, cosa peraltro prevista dal diritto
internazionale e da quello comunitario che considerano la facoltà di
riconoscere un altro stato come prerogativa nazionale e non dell’Ue. In tal
caso si assisterebbe ad un riconoscimento congiunto da parte di numerosi e
importanti paesi europei, che sommato a quello degli Stati Uniti e di altri
alleati occidentali legittimerebbe di fatto, se non di diritto, la
proclamazione d’indipendenza della regione. A quel punto si chiuderebbe sul
terreno il contenzioso territoriale tra Kosovo e Serbia, e si aprirebbe la
delicata transizione verso uno stato kosovaro funzionante, democratico e in
pace con i suoi vicini, obiettivo che l’Occidente non può fallire se vuole
richiudere una volta per tutte il Vaso di Pandora dei Balcani.