Kosovo: la Russia lancia la sfida all’Ue
07 Giugno 2007
Il 31 maggio l’ambasciatore russo presso l’Onu, Churkin, ha respinto l’ultima versione della bozza di risoluzione sul Kosovo proposta dalla Gran Bretagna e sostenuta sia dall’Europa che dagli Stati Uniti, paventando di nuovo la possibilità che la Russia ponga il veto se la mozione arriverà sul tavolo del Consiglio di Sicurezza.
La bozza di risoluzione appoggia il piano preparato dall’inviato speciale dell’Onu Martti Ahtisaari per una indipendenza del Kosovo sotto la supervisione delle Nazioni Unite. Al momento la regione è formalmente parte della Serbia, ma è amministrata dalle Nazioni Unite dal tempo dell’intervento Nato del 1999, che fermando la persecuzione di Milosevic ai danni dei kosovari non slavi ha posto anche fine al controllo di Belgrado su una regione la cui etnia prevalente è quella albanese.
Il piano Athisaari ha il sostegno dei kosovari albanesi, ma nonostante lunghi negoziati ed ampie concessioni non ha ottenuto l’approvazione di Belgrado che non si rassegna a perdere, dopo Bosnia Erzegovina e Montenegro, un’altra consistente fetta di quello che considera storicamente il proprio territorio nazionale. Tuttavia l’opposizione di una nazione relativamente piccola come la Serbia, attraversata da forti tensioni politiche e desiderosa di aprire i negoziati per la candidatura a membro all’Unione Europa, sarebbe stata facilmente gestibile da parte di Europa e Stati Uniti una volta trovato l’accordo sul piano Ahtisaari. Il problema vero è stato posto, ancora una volta, dalla Russia.
Mosca si oppose all’intervento militare della Nato del 1999, che infatti fu realizzato dal fronte progressista costituito da D’Alema, Schroeder, Clinton e Blair senza l’autorizzazione dell’Onu bloccata dal veto russo. La guerra non solo pose fine alle persecuzioni serbe in Kosovo, ma ridusse a più miti consigli Belgrado riguardo ai negoziati sull’assetto della Bosnia favorendo l’accordo con la Croazia, e di fatto spianò la strada alla sollevazione popolare che ha deposto Milosevic e avviato la Serbia sull’incerta e difficile strada della transizione democratica. È anche grazie a quell’intervento se oggi la Slovenia è un tranquillo membro dell’Unione Europea, se la Croazia è candidata ad entrarvi nei prossimi anni, se i Balcani meridionali affrontano tutti i loro gravi problemi economici e sociali senza trovarsi più per le mani una guerra etnica strisciante.
Dopo il ritiro serbo l’Onu si è assunta la responsabilità della stabilizzazione della regione, affidando l’aspetto economico della ricostruzione all’Ue e la gestione della sicurezza alla Nato, secondo un modello simile a quello sperimentato con risultati positivi in Bosnia e in Macedonia. Mosca ha schierato un contingente militare nel 1999 appena terminati i bombardamenti alleati, ma lo ha ritirato nel 2003 per motivi di bilancio statale.
Su cosa si basa dunque l’odierno interesse russo per la regione? Non va certo sottovalutato lo storico legame etnico, linguistico e religioso tra gli slavi di Russia e quelli serbi, in particolare se contrapposto ad un gruppo diverso per etnia e religione come quello degli albanesi del Kosovo, tuttavia non si può ragionevolmente ritenere che oggi il Cremlino agisca per amicizia o per ideali. Ufficialmente Mosca non vuole vedere realizzata una versione così avanzata del principio di autodeterminazione dei popoli, che potrebbe costituire un esempio da seguire per le etnie ribelli presenti sul territorio russo, a partire da quella cecena. Puntando su tale argomento la Russia ripete continuamente che se il Kosovo raggiungesse l’indipendenza allora dovrebbero ambire ad essa anche i russi della Transdnistria, enclave russa tra Moldova e Ucraina che il Cremlino sostiene come fattore destabilizzante nei confronti di Kiev. Putin inoltre gioca sulle paure europee paventando che un Kosovo indipendente potrebbe alimentare le istanze separatiste in Catalogna, a Cipro, nella minoranza ungherese della Slovacchia.
Dietro tale motivazione ufficiale tuttavia, secondo un commento del 1 giugno dell’analista della Bbc Gabriel Partos, “vi è la determinazione a mostrare all’Occidente, ed in particolare agli Stati Uniti, che la Russia va presa sul serio come un attore chiave delle relazioni internazionali”. Posta la questione in questi termini, si comprende come l’assetto del Kosovo sia in realtà oggetto di trattative serrate e soprattutto sia connesso anche ai negoziati in corso su altri dossier. Il testo della risoluzione basata sul piano Athisaari, con la tipica ipocrisia che contraddistingue spesso le posizioni dell’Onu, non usa mai la parola “indipendenza” appositamente per venire incontro ai desiderata russi. È inoltre sul tavolo negoziale la proposta di una moratoria della partecipazione del costituendo stato kosovaro alle principali organizzazioni internazionali, altro espediente per togliere forma alla sostanza dell’indipendenza. Ma Mosca sembra condizionare il suo assenso all’emancipazione del Kosovo dalla Serbia principalmente alla promessa americana di non estendere la partnership Nato ad altre repubbliche ex sovietiche come Georgia ed Ucraina.
Dal punto di vista occidentale, la questione del Kosovo assume una certa urgenza ed importanza a dispetto della dimensione ridotta del territorio in questione. Se non si arriverà presto ad una risoluzione Onu sullo status della regione, è estremamente probabile che i kosovari albanesi dichiareranno unilateralmente l’indipendenza del Kosovo, dando vita ad un processo non supervisionato dalla comunità internazionale che rischia seriamente di destabilizzare i Balcani meridionali innescando una spirale di violenza etnica.
Sono assolutamente comprensibili le ragioni di quanti condannano la frammentazione di questa parte dell’Europa, un processo che conduce a stati troppo piccoli, deboli ed influenzati dalle mafie, incapaci perciò di contrastare i flussi di clandestini e droga che li attraversano. Anche la posizione diplomatica dell’Italia ha tradizionalmente preferito l’ipotesi di un interlocutore statale unico sull’altra sponda dell’Adriatico con cui cooperare quanto a operazioni di polizia, intelligence, visti di immigrazione, ecc ecc. Tuttavia, come sostiene l’analisi di Philip Stephens sul Financial Times del 25 maggio, al momento l’alternativa non è più tra un Kosovo indipendente ed un Kosovo parte della Serbia, ma tra un’indipendenza sotto la guida internazionale ed una lasciata a se stessa. I kosovari non aspetteranno oltre, ed ogni ritardo peggiora le cose perché la ricostruzione istituzionale della regione non può partire se non si definisce il suo punto di approdo. Non va inoltre dimenticato che al momento sono le truppe ed i funzionari europei ad operare sul campo nella nell’area che va dall’Adriatico alla valle del Danubio, ed essi sarebbero tra i primi bersagli di una spirale di violenza interetnica di cui sarebbe difficile fermare poi l’escalation.
In tale ottica, l’Europa dovrebbe imparare dai suoi errori del decennio scorso. Lo sfaldamento della Jugoslavia fu il momento in cui l’Ue avrebbe potuto e dovuto assumersi la responsabilità di garantire pace, stabilità e giustizia nel suo cortile di casa. Venne invece il riconoscimento frettoloso e unilaterale da parte della Germania dell’indipendenza croata, venne l’assedio di Sarajevo, l’infamia di Srebrenica, le fosse comuni di Monstar, e la carneficina continuò finche gli Stati Uniti con Dayton prima e con i bombardamenti poi non misero in riga i signori della guerra balcanici. Oggi l’Ue è di nuovo di fronte ad un bivio: può dimostrare finalmente coraggio e determinazione in politica estera e chiudere così una volta per tutte il capitolo delle guerre balcaniche, oppure sacrificare sull’altare dell’appeasement con Mosca gli interessi suoi e dei popoli balcanici, lasciando che un buco nero di violenza e povertà si riapra nuovamente nel cuore del suo continente.