La 194 non si tocca ma va reinterpretata

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La 194 non si tocca ma va reinterpretata

26 Settembre 2007

Siamo al paradosso.
Mentre chi si oppone all’eugenetica chiede che la legge 194 sull’aborto venga
applicata così com’è stata concepita e invoca vincolanti linee guida per
evitare che il suo spirito venga stravolto, i supporter dell’ingegneria
embrionale e del libertarismo a tutti i costi, incuranti dei cambiamenti che
trent’anni di ricerca scientifica hanno introdotto nel settore, urlano e
strepitano al grido di “la 194 non si tocca!”.

La questione
risiede tutta in questa profonda contraddizione. E se la sentenza del Tribunale
di Cagliari (che accogliendo la richiesta di una donna sarda portatrice di
talassemia ha disposto, nonostante la diversa interpretazione della Corte
costituzionale, che sull’embrione si effettuasse una diagnosi prima
dell’impianto) ha riacceso un dibattito mai sopito dai giorni del referendum
sulla legge 40, lo si deve anche al fatto che la sinistra sulla vita e sulla
morte non ha mai voluto fare chiarezza al proprio interno. Ci si appella alla
sacralità del pronunciamento popolare per quanto riguarda la normativa
sull’aborto, e ci si dimentica allo stesso tempo che sulla procreazione
assistita gli italiani si sono pronunciati in misura ancor più netta,
disertando un referendum che della legge licenziata dal Parlamento avrebbe
voluto far strame.

Di quanto la
bioetica sia fonte di dilaniante disagio nella coalizione di governo, ne ha
dato prova Livia Turco non più di tre settimane fa: l’opinione pubblica era
ancora turbata dalla tragedia dei gemellini di Milano, e il ministro della
Salute spiegava al Corriere della sera che la legge 194 aveva bisogno di nuove
linee guida. Pochi giorni dopo il cardinale Ruini esprimeva lo stesso concetto,
e la Turco, invece di approfittare dell’appoggio indiretto e inatteso di un
così illustre alleato, ha deciso di attaccarlo, uniformandosi al coro sinistro
di chi, ergendosi a difensore della legge sull’aborto, finge di non capire che
è proprio lo spirito di quella norma che la strisciante deriva eugenetica sta
minando alle fondamenta.

Il perché è
spiegato, dati e cronache alla mano, in due documenti – una mozione e
un’interpellanza – presentati da Sandro Bondi e Gaetano Quagliariello
rispettivamente alla Camera e al Senato. Gli episodi citati ad esempio sono la
nuda realtà: a marzo un bimbo abortito alla ventitreesima settimana in seguito
ad una diagnosi di atresia all’esofago è nato vivo, è sopravvissuto
autonomamente per diversi giorni, e al dunque la patologia per la quale è stato
ucciso non gli è mai stata riscontrata. Negli stessi giorni, ricostruiscono i
due parlamentari di Forza Italia, una ginecologa romana dichiarava apertamente
che nel suo ospedale erano le madri a stabilire attraverso il consenso
informato se il bimbo abortito eventualmente nato vivo dovesse essere rianimato
o meno. Senza parlare dell’abuso di farmaci “off label” importati grazie alla
legge Di Bella, e delle distorsioni legate all’utilizzo della pillola abortiva
al di fuori delle strutture pubbliche.

La casistica
è interminabile. E, ad un’analisi senza pregiudizi, dimostra al di là di ogni
ragionevole dubbio come la legge 194 abbia ormai bisogno di una bussola
interpretativa che impedisca alle scoperte scientifiche di stravolgerne il
dettato originario, attento alla condizione della donna ma altrettanto rigoroso
nello sbarrare la strada a qualsiasi rischio eugenetico.

Ecco perché
Bondi e Quagliariello chiedono in primo luogo che i dati trasmessi annualmente
al Parlamento in materia di interruzioni di gravidanza vengano integrati dal
numero dei colloqui svolti nei consultori (per verificare l’idoneità di questo
strumento nella prevenzione) e dal numero dei bambini nati vivi a seguito di
aborti tardivi, con la specificazione della settimana di gestazione.

Gli
esponenti forzisti sollecitano inoltre il ministro Turco, nei casi di aborti
praticati ai sensi dell’articolo 6 della legge 194, ovvero a causa di rilevanti
anomalie o malformazioni nel nascituro che possano mettere gravemente in
pericolo la salute psichica o fisica della madre, a rendere obbligatorio
l’accertamento diagnostico dopo l’interruzione di gravidanza, per verificare il
grado di riscontro delle diagnosi prenatali. E, per scongiurare il rischio di
pratiche eugenetiche, a compilare una casistica delle patologie fetali che
inducono le donne ad interrompere la gestazione.

Quanto alle
linee guida per un aggiornamento interpretativo della legge 194, Sandro Bondi e
Gaetano Quagliariello suggeriscono in primo luogo di fissare il limite entro il
quale poter abortire in considerazione delle aumentate speranze di vita per i
prematuri (ad esempio la ventiduesima settimana). Il faro è ancora una volta il
dettato della norma, che all’articolo 7 stabilisce che solo il rischio della
vita della madre può legittimare l’interruzione di gravidanza laddove ci sia
“la possibilità di vita autonoma del feto” (possibilità, non probabilità).

Infine, la
mozione e l’interpellanza chiedono al ministro Turco di chiarire in cosa
consista l’obbligo – previsto dalla legge – di condurre le procedure abortive
nelle strutture pubbliche, specificando che a tale prescrizione le nuove
metodologie, in particolare quelle di tipo chimico, non possono sottrarsi.

In caso
contrario, davvero la 194 si ridurrebbe ad una vetusta summa di anacronistiche
indicazioni, facilissime da eludere e congeniali ai “Mengele” del terzo
millennio che al cospetto del mistero della vita e della morte si rifugiano in
un rassicurante arbitrio.