La battaglia di Algeri non è mai finita
27 Gennaio 2011
Pensi a un Paese in cui da vent’anni c’è lo stato di emergenza, dove le madri dei desaparecidos di una guerra civile che ha fatto centinaia di migliaia di morti non hanno il diritto di manifestare liberamente in piazza. Un Paese dove un decennio di liberalizzazioni economiche in ossequio ai mantra dell’FMI e della Banca Mondiale hanno prodotto una rivolta del pane molto più affamata ed arrabbiata di quella tunisina. Pensi ai lavoratori che si danno alle fiamme per protesta, a quella dozzina di morti e alle centinaia di feriti tra i manifestanti. Un Paese sotto la minaccia di Al Qaeda, nella sua variante maghrebina.
E’ l’Algeria di Abdelaziz Bouteflika, uno “stato rentier” com’è stato definito, perché seduto tronfiamente sopra un forziere di risorse energetiche che vanno in gran parte sprecate. Il presidente Bouteflika ha voluto l’amnistia per i crimini della guerra civile degli anni Novanta e adesso si ritrova con i fondamentalisti islamici che cercano di prendere la testa dei cortei; mentre i militari, che pure hanno le loro colpe nel dramma della repressione, remano contro dopo aver aiutato il presidente a salire al potere.
Lo scandalo Sonatech ma anche altri episodi di corruzione nel suo entourage sono la prova di una gestione clientelare e corrotta del potere che poi è la cifra del lungo governo Bouteflika. L’uomo dei piani quinquennali è stato anche l’aedo delle privatizzazione ma il risultato appare una grande confusione tra statalismo francese, sultanismo ottomano e libero mercato: non certo la rivoluzione di Milton Friedman.
L’Algeria è la prossima nella lista del Paesi destinati a ribellarsi alle autocrazie geriatriche del mondo arabo, una nazione che vive in uno "stato di agitazione morale permanente", come ha scritto Hugh Roberts su Foreign Policy. Una vera e propria "democrazia del riot" se pensiamo che nel recente passato sono state intere municipalità a sollevarsi contro le decisioni del governo centrale.
C’è una parola che racchiude tutto il disprezzo verso la cricca dominante – la hogra – l’arroganza della casta che controlla la politica, i media, l’esercito, e verso cui gli algerini provano un enorme disincanto, avendo compreso di vivere in una democrazia solo formale, dove il parlamento è stato svuotato di senso, o sei dentro il giro che conta o sei fuori abbandonato a te stesso. Da qui la rivolta, continua, simultanea, nelle città e nelle periferie, una ribellione improduttiva e a bassa intensità che non avanza rivendicazioni politiche ma riesce a destabilizzare l’apparato dello stato e delle sue strutture della forza, incapaci di “riportare l’ordine”.
Non è chiaro se e quando Bouteflika farà la fine di Ben Alì, né è detto che la faccia visto che il suo aiuto si è rivelato prezioso nella lotta al terrorismo islamico, e questo a Washington certo non se lo dimenticano, come hanno mostrato i cable di Wikileaks. In cambio della sicurezza e per non far tracimare il fondamentalismo islamico l’Occidente ha tollerato la repressione interna; d’altra parte se davvero in Algeria ci fosse la democrazia questa sarebbe seriamente in pericolo vista l’influenza dell’islamismo. Così, la repressione governativa finisce per alimentare l’islamismo e mortificare la democrazia.
Il presidente Bush fu uno dei grandi sponsor di Bouteflika, che è anche amico di russi e cinesi, ma il patto era che dopo le riforme economiche e in cambio del contrasto al terrorismo l’uomo di Algeri desse il via a un piano di riforme sociali, partendo dal lavoro e rispettando i diritti umani, la libertà di parola, quella religiosa. Ben poco è stato fatto da questo punto di vista e Obama ha disatteso completamente gli sforzi del suo predecessore. Bouteflika, eletto già per due mandati con cifre schiaccianti, ha pensato giustamente di modificare la Costituzione per restare in carica qualche altro anno. Il sistema della hogra non è finito. A meno che…