La battaglia per le liberalizzazioni è una battaglia in difesa del diritto
12 Gennaio 2012
Tra molti ostacoli e nonostante il fuoco di sbarramento delle categorie schierate a difesa dello status quo, sembra stia per partire davvero un processo di liberalizzazione che dovrebbe riguardare vari settori: le professioni liberali, i trasporti, l’energia, le poste ecc.
Gli argomenti economici in favore di una maggiore concorrenza sono noti e molti commentatori autorevoli, da tempo, stanno richiamando l’attenzione sulla necessità di dare più slancio a un’economia appesantita da troppe rendite di posizione. In particolare, le imprese italiane hanno difficoltà a competere con realtà di altri Paesi se i loro concorrenti hanno servizi a basso costo e alta qualità, mentre da noi si continua a fare i conti con fornitori imbolsiti dalla protezione, abituati a non dover fare i conti con la competizione e l’innovazione, e quindi incapaci di offrire servizi all’altezza dei tempi.
Tutto questo è vero, ma non basta. Raramente viene sottolineato, in effetti, come il processo di liberalizzazione abbia dalla sua ragioni di ordine giuridico. Quello che bisogna restaurare, soprattutto prestando attenzione al futuro dei più giovani, è il diritto di ognuno a lavorare, intraprendere, costruirsi un futuro. Quando in una società le bardature corporative sbarrano la strada d’accesso a questa o quell’attività – così che diventa impossibile fare il notaio, il farmacista o l’avvocato, e perfino il tassista – quello che muore è il diritto stesso. E la persona viene privata della libertà di guadagnarsi onestamente da vivere.
Nel Seicento un grande giurista inglese, Edward Coke, si batté con decisione contro le interferenze della Corona nella vita economica, facendo approvare lo Statute of Monopolies del 1624, proprio con l’argomento che le pratiche consolidate dalla common law dichiaravano illegittimo ogni monopolio pubblico (o anche concesso ai privati dal potere regale) e quindi qualsiasi impedimento ad avviare un’attività. Coke non era guidato in primo luogo da argomenti connessi all’efficienza, ma da preoccupazioni di giustizia.
Già in precedenza, nel 1614, nella sua qualità di Chief Justice del King’s Bench, egli aveva sentenziato che «secondo l’autentica common law era legittimo per ogni uomo compiere qualsiasi lavoro che serve a mantenere se stesso e la sua famiglia», essendo ogni limite vincolato soltanto all’onestà della professione e alla competenza (un maniscalco incapace avrebbe arrecato danno al cavallo). E un anno dopo aveva decretato che «la common law aborrisce tutti i monopoli che proibiscono di lavorare in affari legittimi». Se la regina Elisabetta pretendeva di concedere a questo o a quello la facoltà di essere il solo a compiere una determinata prestazione, una simile decisione doveva considerarsi semplicemente nulla.
Nella nostra società, allora, liberalizzare vuol dire ridare ad ognuno di noi quelle libertà fondamentali che lo Stato moderno, negli ultimi quattro secoli, ci ha sottratto. Vuol dire, al tempo stesso, restaurare la base stessa del diritto, come lo concepiva il beato Antonio Rosmini: la proprietà. In effetti, ogni regolamentazione rappresenta una forma di esproprio (sono proprietario di un bene, ma non posso disporne liberamente), mentre un processo di liberalizzazione riporta la realtà sotto il pieno controllo dei suoi legittimi titolari.
Per questa ragione, però, è paradossale che lo stesso governo che ieri ha portato l’Italia in vetta alla classifica dei Paesi più tassati, ora pretenda di agire come forza liberalizzatrice. Ovviamente l’augurio è che l’esecuzione guidato da Mario Monti riesca davvero a permettere a ogni laureato in giurisprudenza di fare il notaio, a ogni laureato in farmacia di aprire una farmacia, a chiunque abbia la patente di fare il tassista, e via dicendo. Al tempo stesso è legittimo essere scettici, perché solo muovendo da un’ispirazione liberale si può cogliere il senso autentico delle liberalizzazioni e avviarsi con la necessaria decisione lungo quella strada, in fondo alla quale c’è non soltanto una società più dinamica, ma soprattutto una più liberale.
Le liberalizzazioni, infatti, servono a favorire la crescita, lo sviluppo, l’occupazione. Ma esse, in primo luogo, sono necessarie a ricostruire un ordine giuridico ormai devastato dalla moltiplicazione dei privilegi e, in definitiva, a farci riguadagnare molte delle libertà che abbiamo perduto.