
La beffa dei prestiti alle Pmi: pochi, maledetti e neanche subito

17 Aprile 2020
Pasqua è passata ma, più che un uovo, i provvedimenti del governo sembrano una cornucopia di sorprese. Ogni volta che cittadini e operatori economici provano a fidarsi e a usufruire delle misure annunciate con grandi fanfare, dietro l’angolo spunta la fregatura.
La prova generale è stata a marzo il “decreto Cura Italia: pubblicato in ritardo rispetto agli adempimenti fiscali che avrebbe dovuto sospendere (sicché quasi tutti i beneficiari del rinvio hanno finito per pagare lo stesso), accidentato nella sua attuazione per via del pasticcio del portale Inps, problematico su fronti cruciali come quello della cassa integrazione.
Laddove tuttavia lo spread tra la realtà e la sua rappresentazione ha raggiungo il suo apice, è con il cosiddetto “decreto liquidità”. Già, perché quando annunci a rete unificate che hai trovato il modo di mobilitare immediatamente risorse per 400 miliardi di euro a sostegno dell’economia, alla gente la tentazione di credere che forse stai facendo sul serio viene. Grave errore!
Al momento del varo del decreto, anche i più accaniti e prevenuti oppositori avevano concesso alla premiata ditta Conte-Gualtieri il beneficio del dubbio. Perché per riprendersi da questa guerra servirà qualcosa di assai simile al piano Marshall e solo un pazzo potrebbe anteporre la soddisfazione di veder franare i propri avversari alla salvezza del Paese. Epperò, purtroppo, ancora una volta gli annunci si sono rivelati poco più di una televendita.
La previsione infatti è che il grosso dei flussi di credito immaginati arriverebbe “a babbo morto”, cioè in tempo non utile a salvare le attività produttive dal fallimento. E, soprattutto, prevedere un solo miliardo di scostamento di bilancio a garanzia di un volume di prestiti come quello ipotizzato, significa che quelle cifre non si vedranno mai e che le verifiche preventive delle banche non si alleggeriranno di un millimetro – anzi! – rispetto a quelle abituali in tempi ordinari.
A salvare parzialmente la faccia dell’esecutivo era stata – o almeno così sembrava – una misura di minor potenza di fuoco ma più concreta, immediata e capillare: la previsione di prestiti tramite il microcredito con il 100 per cento di garanzia statale per un massimo di 25mila euro cadauno. Anche perché, come ha fatto sapere l’Abi (l’associazione delle banche italiane), se tutto fosse andato secondo programma i primi prestiti avrebbero potuto essere erogati nel giro di 48 ore dall’apertura della relativa piattaforma.
E invece nelle ultime ore, con la pubblicazione del modulo di domanda e l’avvio della fase operativa, la duplice doccia fredda. Innanzi tutto il Fondo di garanzia da cui dipendono le erogazioni, giudicando rischiosa l’operazione, ha fissato una percentuale di accantonamento del 30 per cento: per ogni euro di garanzia, tre euro di finanziamenti. Ciò significa che su una platea di circa 5 milioni di partite Iva potenzialmente aventi diritto, le domande evase potranno essere soltanto 200mila se tutti le richieste arrivassero al tetto dei 25mila euro, o – come ha stimato il Sole 24 Ore – 350mila considerando una media di 15mila euro per ogni domanda.
Ma non finisce qui. Il decreto stabilisce infatti che il prestito richiesto non potrà superare il 25 per cento dei ricavi dell’anno precedente. In sostanza, per poter accedere al limite massimo dei 25mila euro di credito bisogna vantare un ricavo, nell’ultimo bilancio depositato o nell’ultima dichiarazione fiscale, non inferiore ai 100mila euro. Il che, oltre a escludere una grossa fetta di professionisti e partite Iva individuali, lascia fuori proprio coloro che più ne avrebbero bisogno: le giovani attività, le start-up, le botteghe, i piccoli e piccolissimi esercizi commerciali o artigianali che spesso tengono in vita borghi e frazioni e che rischiano di essere spazzati via da questa crisi.
Insomma: pochi senz’altro, maledetti pure, subito non se ne parla proprio.
Si tratta di un problema serissimo, al quale bisogna mettere riparo con urgenza assoluta se non vogliamo che il tessuto diffuso della nostra micro-economia si spenga. Resta il fatto che sembra esserci un che di perverso, speriamo inconsapevole, nella sistematicità con la quale l’annuncio dei provvedimenti smentisce e spesso contraddice il loro contenuto. Il che, se è già odioso in tempi di pace, in tempo di guerra diventa materialmente insostenibile e moralmente riprovevole.