La Birmania vittima dell’incapacità di esportare la democrazia
09 Ottobre 2007
Durante una pausa in Europa, la scorsa settimana, ho
sperimentato due diversi approcci alla politica. Il primo è stato guardare la
CNN International mandare in onda ogni attimo della protesta dei monaci
buddisti e di circa altri 100 mila birmani nelle strade di Rangoon. Ora dopo
ora, la CNN mandava in onda video amatoriali di monaci in vesti arancioni per
le strade, mentre gli anchormen a Londra comunicavano con toni di instancabile
insistenza che il mondo era “molto preoccupato” per le sorti della Birmania.
La seconda occasione per parlare di politica
– collegata in qualche modo con la Birmania, suppongo – è stata offerta dalla tendenza
di uno dei padroni di casa europei a portare l’attenzione degli ospiti
americani sull’impopolarità del governo degli Stati Uniti, che apparentemente
si estende come un’oscura nebbia dal Tamigi al Danubio. Uno dei padroni di casa
ha riassunto la fonte di questo vento sfavorevole in un solo termine: i
neoconservatori.
Già, i neoconservatori. L’espressione
è diventata il sinonimo globale per quello che i sapienti uomini del mondo ora
concordano essere stata una brutta idea, ovvero l’intenzione degli Stati Uniti
di diffondere ai popoli del mondo ancora non liberi l’idea descritta nella
prima frase della ‘dottrina Bush’, presumibilmente ispirata dal
neoconservatorismo: “un unico modello sostenibile per il successo di ogni
paese: libertà, democrazia e libera impresa”.
Negli Stati Uniti e in Europa l’idea di
creare “un equilibrio di potere che favorisce la libertà dell’uomo” come
risposta ai ramificati network del terrorismo è oramai solitamente derisa come
‘un sogno’, ‘un fiasco