La Brigata Ebraica, il 25 aprile e i “partigiani blu”
25 Aprile 2017
La Brigata Ebraica. Cinquemila ebrei inquadrati nell’esercito britannico che parteciparono alla Resistenza in Italia combattendo i nazisti. Se il nostro fosse un Paese normale, di quelli che fanno i conti con il proprio passato, oggi, a Roma, le insegne con la stella di Davide sfilerebbero nel corteo dell’ANPI, l’associazione nazionale dei partigiani. Ma nel nostro Paese non solo la memoria storica è un optional, ma viene distorta in maniera tale da rallegrarsi se gli esponenti della comunità palestinese partecipano alle celebrazioni del 25 aprile, mentre ci si lava le mani in stile pilatesco se la comunità ebraica decide di manifestare da sola. Del resto in passato ci sono state tensioni e contestazioni contro la Brigata Ebraica da parte dei palestinesi, anche se non si capisce bene per cosa manifestino questi ultimi, visto che all’epoca il Gran Muftì non passava il tempo con gli Alleati per aiutarli a sconfiggere il totalitarismo ma si attovagliava con Hitler in persona. A meno che non si voglia far credere che quella dei fascisti islamici di Hamas sia un’altra “resistenza”…
In realtà delle “altre resistenze” si potrebbe, anzi si dovrebbe parlare, ma in Italia per anni la storiografia e mettiamoci pure la critica letteraria hanno evitato accuratamente di farlo, subordinate com’erano all’ortodossia imperante. Oltre alla Brigata Ebraica ci furono anche altre formazioni partigiane, e singole individualità, piccoli maestri dimenticati che in seguito sono sfuggiti alle catalogazioni dominanti, che con i loro libri, romanzi, e con la loro stessa testimonianza di vita hanno dimostrato che la Storia è spesso più complicata di come si vuole inscatolarla e insabbiarla. Per anni abbiamo visto riservare poco, pochissimo spazio, ai partigiani “blu”, liberali, cattolici, anche conservatori, si pensi allo sconosciuto in Italia ma super tradotto all’estero Andrea Giovene, del quale sarebbe utile rileggersi la “Autobiografia di Sansevero”, ripubblicata di recente anche da noi, libro in cui, fuori dai furori della esaltazione resistenziale, si coglie già il senso della degenerazione partitocratica che minerà la struttura della nostra vita repubblicana.
Seguendo il filo di questo discorso, convincono poco anche gli strali riservati dall’ex premier Renzi all’ANPI, sfida un po’ gretta e rancorosa, come ha scritto qualcuno (i renziani non dimenticano che i partigiani hanno votato No al referendum): il problema però non sono i sassolini che Renzi vuole togliersi dalle scarpe, bensì il fatto che il partito democratico, o quello che ne è rimasto, per anni ha perseguito una idea divisiva della storia resistenziale. Si tratta dello stesso partito, all’epoca guidato da Dario Franceschini, che il 25 aprile 2009 sollevò uno scudo preventivo contro l’allora presidente del consiglio Berlusconi, che a Onna, città vittima dei nazifascisti, piegata in quegli anni dal terremoto, aveva indossato il tricolore che gli porgevano i partigiani, dicendo una cosa molto semplice: per arrivare a un’identità italiana condivisa, unitaria, oltre le appartenenze, la festa della liberazione doveva diventare “festa della libertà”. Definizione che non sarebbe dispiaciuta al partigiano Johnny. Ma il Pd di allora la prese male. Quello di oggi vuole essere inclusivo ma immaginiamo reagirebbe allo stesso modo. E intanto anche questo 25 Aprile, che per la maggior parte degli italiani ormai è diventato solo “il ponte”, scorre via come gli altri. Complimenti ai presunti custodi dell’antifascismo.