La caduta della casa dei Kennedy
27 Agosto 2009
Con la morte del mitico senatore Ted Kennedy, monumento vivente della sinistra liberal, unico “fratello non assassinato” di JFK e di Bobby (e l’unico dei tre il cui “potenziale presidenziale” venne stroncato da disdicevoli vicende private anziché da una pallottola), cala definitivamente il sipario su una delle più potenti e controverse dinastie politiche americane dell’ultimo secolo (il cui potere ha peraltro origini decisamente inquietanti, troppo spesso sciattamente dimenticate dai media italiani, ancora fermi ai luoghi comuni agiografici di quarant’anni fa).
“Lexington”, ossia il capo della redazione USA dell’"Economist" Robert Guest, ieri sul suo blog ha scritto del vecchio Ted che “ha combinato più cose lui nei suoi 47 anni passati al senato che non suo fratello nei tre che passò alla Casa Bianca”.
Vero. Un esempio lampante lo fornisce Jeffrey Toobin sul sito del "New Yorker", ricostruendo l’influenza che negli anni il senatore del Massachusetts ha esercitato in occasione delle nomine dei giudici alla Corte Suprema.
Tra tante battaglie parlamentari vinte, Ted Kennedy ne lascia ai posteri due grandi incompiute: una, quella di cui tutti parlano in queste ore, è la mai realizzata riforma del sistema sanitario, la sua battaglia di una vita, da sempre combattuta argomentando in base a ragioni non solo morali ma anche e soprattutto di bilancio (come mi è capitato di ricordare recentemente qui su L’Occidentale).
L’altra, che negli ultimi tempi è stata messa in ombra dallo scontro sulla sanità ma che è destinata a riemergere prepotentemente nei prossimi mesi, è quella sull’immigrazione. Nel 2005, Ted Kennedy aveva presentato a quattro mani con il senatore repubblicano (e futuro candidato alla Casa Bianca) John McCain un disegno di legge bipartisan che divenne, e rimase per oltre un anno, il tema più “caldo” della politica interna statunitense. La proposta prevedeva la concessione di un permesso di soggiorno triennale a 400.000 lavoratori stranieri all’anno, e una sanatoria una tantum ad ognuno dei quasi undici milioni di immigrati clandestini che già si trovano in America, a patto però che il clandestino si faccia schedare, paghi le tasse arretrate e una multa di 3.000 dollari, e passi un esame di lingua inglese. Il presidente Bush la appoggiò sfidando le strenue resistenze della base repubblicana, e dopo mesi di braccio di ferro (e di manifestazioni di piazza da parte degli immigrati, circostanza non solo folkloristica, la cui significativa assenza nelle nostre piazze rende tendenzialmente incomparabili le apparentemente analoghe polemicuzze nostrane), il Senato approvò il testo con alcuni emendamenti di compromesso; l’iter legislativo si è però arenato alla Camera, e non si è rimesso in moto nemmeno dopo che con le elezioni di medio termine del 2006 la maggioranza alla Camera è tornata saldamente in mano ai democratici. I giornali avevano cominciato a vociferare di una rimessa in moto dell’iter legislativo del progetto McCain-Kennedy, ma in questi tre anni non se n’è più fatto nulla: a quanto pare, anche il Congresso a maggioranza democratica ha serie difficoltà a maneggiare una materia tanto scottante.
Che il potere dei Kennedy fosse al tramonto lo si era constatato mesi fa, quando Caroline, figlia di JFK, dopo essere stata sponsor della prima ora di Barack Obama durante le primarie, e dopo essere stata ricompensata con la presidenza del team preposto alla selezione del candidato alla vicepresidenza nel ticket elettorale, non è riuscita ad accaparrarsi il seggio senatoriale lasciato vacante da Hillary Clinton.
Se ora Caroline non riuscirà nemmeno ad aggiudicarsi il seggio dello zio, avremo la conferma che con Ted è finita la storia della dinastia Kennedy.
L’epitaffio di Lexington è quindi giustamente dedicato alla dinastia stessa oltre che al senatore:
“Ted è stato l’ultimo Kennedy a far accadere le cose. Il resto della famiglia appare avviato ad una graduale estinzione dalla scena pubblica”.