
La Carfagna critica la Corte in nome del diritto alla sicurezza…e fa bene

28 Luglio 2010
Stupisce non poco l’ incomposta critica di Tiziana Maiolo – v. l’articolo La sentenza della Corte Costituzionale. Stalking, la Carfagna alza la voce ma in gioco ci sono le regole del processo, L’Occidentale del 24 luglio 20010 – al ministro delle pari opportunità, Mara Carfagna, rea di essersi indignata per la sentenza sullo stalking della Corte Costituzionale. Una sentenza che, pur se motivata e ineccepibile sul piano formale, evidenzia l’impotenza delle leggi dinanzi a uno dei fenomeni più ripugnanti per la sensibilità morale del nostro tempo. Non sulle decisioni della Consulta, però, vorrei intervenire bensì sulla ‘filosofia’ (diciamo così) libertaria che ispira l’ex parlamentare di Forza Italia.
"Non c’è bisogno di essere giuristi — scrive la Maiolo — per sapere prima di tutto che la Costituzione (art. 27) prevede la presunzione di non colpevolezza prima dei tre gradi di giudizio". Io non sono un giurista ma uno studioso che, da mezzo secolo, si occupa di liberali e di liberalismo e non ignoro che la "presunzione di non colpevolezza" è un principio sacrosanto della ‘civiltà del diritto’ — un principio che, ad essere garantisti coerenti, convive, con profondo disagio, nella nostra Magna Carta, con l’istituto della ‘custodia cautelare’ .
So pure, tuttavia, che, per i classici del liberalismo, i "diritti di libertà" presupponevano il diritto alla sicurezza, al punto da far dire a Friedrich Meinecke — il più grande storico tedesco del secolo — scorso che la ‘società aperta’ di John Locke non sarebbe stata possibile senza lo Stato di Thomas Hobbes (anche lui, inglese…). Il liberalismo non è l’antitesi della filosofia dell’’uomo qualunque’ — come da sempre ritengono i radical chic, che vogliono ‘rieducare la nazione’ e renderla più virtuosa — ma la registrazione dei suoi bisogni, delle sue paure, delle sue speranze che non si traducono, sic et simpliciter, in leggi e disposizioni governative dettate dalle emozioni del momento ma che neppure vengono ignorati e sepolti sotto il disprezzo per "l’istinto gregario delle masse" e le sue irrazionali fobie.
Ci sono individui oggettivamente pericolosi, il cui stato di fermo potrebbe scongiurare il pericolo di fuga, di ripetizione del reato e di inquinamento delle prove, come detta l’art. 275 del codice di procedura penale richiamato dalla Maiolo. In questi casi, com’è noto, la legge italiana prescrive che tocca al giudice disporne la custodia in carcere.
Sennonché in che mondo vive l’ex deputata di Forza Italia? Non conosce davvero la juridical culture di gran parte della nostra magistratura? E ritiene davvero che Rita Bernardini, ‘l’encomiabile eccezione’ che si è dissociata dalle riserve sulla sentenza della Corte, e i radicali italiani — quelli che, con Pannella, paventavano la criminalizzazione dei…pedofili — siano sempre interpreti credibili dei valori della ‘società aperta’? In base alla sua logica, la figlia di un Pacciani, che denunci il padre per aver abusato di lei, può pretendere l’allontanamento del genitore, prima della condanna in giudicato (che, com’è noto, nel nostro paese richiede tempi biblici), solo se il magistrato ritenga il ‘presunto’ colpevole capace di ripetere il reato. Ovvero la giovane deve affidare la sua incolumità personale alla dea bendata, sforzandosi di rimuovere i tanti (troppi) casi di assassini a piede libero — le cronache liguri ne sanno qualcosa — che i custodi del diritto avevano ritenuto "innocui".
Ripeto, non sono un giurista. Può darsi che quella bocciata dalla Consulta fosse davvero una "norma popolar-forcaiola", come scrive su Libero Filippo Facci — tradito forse dalla smania di épater les bourgeois . Resta il fatto che il trio Carfagna, Mussolini, Prestigiacomo, oggetto di tanta malcelata acrimonia da parte della Maiolo, espresse, nel 1999, a proposito della sentenza della Corte di Cassazione,"che cancellava la condanna per stupro nei confronti di un istruttore di guida accusato di aver usato violenza a un’allieva", preoccupazioni indubbiamente fondate e legittime. Comunque si vogliano giudicare le motivazioni dei magistrati della Cassazione, a muovere le parlamentari protestatarie era la difesa di un universo femminile le cui libertà di andare e venire a qualsiasi ora del giorno e della notte, di vestirsi come piace, di frequentare chicchessia venivano e vengono spesso messe a grave rischio.
Tra i paradossi del nostro Paese uno dei più sconcertanti è la segreta complicità tra i residui della vecchia mentalità maschilista italica, le avanguardie del buonismo giudiziario e gli enragés del garantismo. Questi ultimi ricordano, non a torto, come fa la Maiolo, che "i processi per stupro, oltre a essere molto delicati, sono anche difficili" ma, con l’aggiunta che "la gran parte delle volte c’è una parola contro l’altra", in sostanza, sgonfiano tutta la faccenda, riducendola a una questione di ‘calunnia’ di femmine mitomani o ricattatrici. Viene in mente la fulminante battuta di Woody Allen: "Se riesci a mantenere la calma mentre tutti attorno a te sono in preda al panico, vuol dire che non hai capito qual è il problema". E qui il problema è che il panico di molte donne è tutt’altro che ingiustificato, non facendo esse parte della categoria della vergine de I nostri antenati di Italo Calvino, stufa di essere protetta dal Cavaliere inesistente (nel nostro caso, lo Stato) contro il mostro che la vuole violentare.
Le ‘regole, le procedure, le garanzie’ non sono beni, per così dire, ‘finali’ ma ‘beni strumentali’: servono a proteggere, non a far valere il principio "fiat justitia, pereat mundus". Il compito tragico del politico è quello di preservare il ‘mundus’ dalla rovina, in nome dell’etica della responsabilità, non quello di affermare un valore assoluto, in nome dell’etica della convinzione ("fa quel devi, avvenga quel che può!"). La carcerazione preventiva, ribadisco, è un vulnus, una deroga preoccupante, e finora ineliminabile, a quel diritto all’habeas corpus che segna l’atto di nascita del mondo moderno. Ciò significa che se ne deve predisporre un uso rigorosamente oculato e controllato — magari facendo intervenire gruppi di esperti vari, in rappresentanza delle categorie professionali più competenti, per questi tipi di reato, della società civile, che affianchino il magistrato cui tocca decidere se ‘disarmare’ un potenziale omicida o stupratore.
Si potrebbe pensare, in via d’ipotesi,a una limitazione della libertà dei (seriamente) ‘sospettati’ che non comporti una reclusione carceraria ma un effettivo allontanamento in altro luogo, sotto la vigilanza delle forze dell’ordine. Quello che va evitato,invece, è affidare una responsabilità così grave a un solo magistrato sovrano, non di rado un giovane vincitore di concorso, convinto semmai che l’allarmismo per certi reati sessuali sia alimentato da chi vuol far dimenticare ben più gravi conflitti sociali e di potere.
Un’ultima osservazione. Non mi sembra giustificato il sarcasmo sull’assimilazione del delitto di mafia al delitto contro la persona. Per il comune cittadino, perché dovrebbe esserci una differenza sostanziale fra il "presunto" killer della ‘ndrangheta e il "presunto" stupratore? Il (discutibilissimo) "reato associativo" — che rientra in una tipologia di reati ancora presenti nel nostro ordinamento e su cui la Maiolo avanza condividibili riserve — qui, non c’entra un fico secco: se gravissimi indizi fanno ritenere che la libertà di circolazione di un individuo costituisca per altri un pericolo, le autorità pubbliche hanno il dovere di metterlo in condizione di non nuocere sia che tale pericolo incomba su una collettività sia che incomba su una singola persona. E’ questo l’"individualismo liberale" bene inteso: la minaccia alla vita di un solo uomo o di una sola donna (possibile oggetto di ‘attenzioni’ sessuali), sul piano etico e giuridico, vale quanto la minaccia a una pluralità di cittadini (commercianti, industriali, imprenditori agricoli, costretti, con la violenza, a pagare il pizzo etc.).
Per chi condivide la ‘filosofia del diritto’ della Maiolo, ogni diritto alla sicurezza diventa la spia di una passione di gogna e di linciaggio. "Sostanzialisti/e di tutto il mondo unitevi!" è l’ironia pesante che sbatte in faccia a quanti pretendono dalle sentenze il compito di "dare segnali". Se ‘sostanzialista’ è chi, credendo di sapere bene come stanno le cose, vuole andare alle spicce, non perdersi dietro tanti cavilli di codici e di commi, infliggere pene esemplari, non sono un sostanzialista, né tanto meno vorrei che le sentenze avessero un valore altamente educativo — mi basta che assolvano al loro ruolo di protezione sociale dalla criminalità — ma l’ironia mi sembra davvero fuori luogo.
Il momento più alto del ‘formalismo’, come sanno gli storici del diritto, fu segnato dalle procedure dei Tribunali della Santa Inquisizione: nelle aule di Torquemada, i sostanzialisti — che avrebbero pensato: "ma come si fa a ritenere che una donna abbia avuto commercio con un fantasma infernale creato dalla superstizione religiosa?" — non avevano alcun diritto di accesso: a contare erano le minuziose regole che ‘assicuravano’ interrogatori imparziali e domande/risposte appropriate. No, non sono le infinite leggi e le procedure complesse a ‘garantire’ i cittadini , ché ,anzi, più ce ne sono più le libertà dei cittadini ne restano impaniate ma l’individuazione di pochi, fondamentali, indisponibili diritti. Il primo grande testo del ‘liberalismo occidentale’, il Trattato sul governo civile, del ricordato John Locke ne conteneva solo tre: il diritto alla vita, alla libertà, alla proprietà. Da diversi decenni, solo il secondo sembra preoccupare i tanti liberali veri e falsi proliferati come conigli dopo la caduta del Muro di Berlino.
Se si ricorda il ‘diritto alla vita’, si viene bollati come forcaioli, eppure fu esso a dare origine al "pactum societatis" che pose al riparo gli individui dall’arbitrio e dalla morte violenta. Il bisogno di sicurezza dei cittadini può essere, e spesso è stato, una formidabile risorsa per i dittatori che vogliono imporre "la legge e l’ordine" ma i veri responsabili della perdita delle libertà civili e politiche non sono i dittatori ma quanti hanno lasciato crescere quel bisogno, senza far nulla per tranquillizzare i cittadini, con leggi, istituzioni, prassi amministrative concrete. Se si ritiene che "la violenza sulle donne (o sui minori)" sia "una piaga spaventosa e inaccettabile per il nostro paese e per il mondo", bisognerebbe porsi il problema delle misure atte a contenerla, astenendosi dalle sofistiche contrapposizioni, come quella tra "giustizia e legalità" che stanno "a cuore a tutti", da una parte, e le "regole" che pure "dovrebbero stare a cuore a tutti", dall’altra.
La "regola" è l’ancella della giustizia e della legalità non la terza persona della Santissima Trinità del Paradiso garantista. Intendiamoci, le "garanzie della libertà" — era il titolo della bellissima raccolta di scritti sul ‘Mondo’ di Vittorio de Caprariis — sono il cuore del liberalismo, la sua virtù, ma come scriveva uno che di libertà se ne intendeva, il barone de la Brède, al secolo Montesquieu, "chi lo direbbe! Persino la virtù ha bisogno di limiti".