La censura in Iran: dove (non) arriva la longa mano del regime khomeinista

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La censura in Iran: dove (non) arriva la longa mano del regime khomeinista

06 Marzo 2010

Mostrare la lotta verde, che in Iran continua da giugno, è pericoloso. Censura e propaganda sono le gambe solide dei dittatori islamici per dare calci, come da regime, all’intelligencija politicamente estranea. Non è bella la vita nel soviet persiano per i registi (e artisti, giornalisti, professori, blogger). I watchdog del potere hanno a disposizione molti filtri, dal Ministero della propaganda islamica all’Ufficio della valutazione e della sorveglianza dei film. Eppure, la Street art del rap e dei graffiti sembra ancora troppo difficile da pattugliare.

Il regista Jafar Panahi è stato arrestato di nuovo, insieme alla sua famiglia. L’estate scorsa per aver assistito alla cerimonia funebre di Neda, questa volta perché sta girando un film sulle proteste di piazza antigovernative. Dove non sono arrivate le minacce (“noi non ti faremo niente ma chi li controlla i giovani di Hezbollah, se te li trovi davanti casa?”) è arrivato il lungo braccio della legge; a conferma che ogni produzione artistica deve essere vagliata, seguita, mondata dalle guide della rivoluzione islamica.

L’Iran vuole buona pubblicità nel mondo e negli ultimi dieci anni, secondo un dossier della rivista Film, su 607 pellicole prodotte, e ufficialmente riconosciute dallo Stato, 427 sono state degne della diffusione all’estero (un caso recente riguarda il film The book of Law ). Qualche immagine, pochi film e molti autori, però, riescono a scappare agli artigli persiani. La regista Sepideh Farsi lascia l’Iran, ci torna pochi giorni prima degli scontri di giugno e con un cellulare gira un film (Teheran senza autorizzazione) per le strade della capitale, riprendendo i primi rumors che alimenteranno la rivolta.

La pellicola è stata presentata in Francia, dove ci si è ricordati di No One Knows About Persian Cats (Nessuno sa nulla dei gatti persiani) di Bahman Ghobadi, scritto con la compagna Roxana Saberi (la giornalista detenuta per 100 giorni perché sospettata di essere una spia al soldo degli USA). Un insolito link alla Teheran underground, nel quale la globalizzazione del made in China, di Mtv e delle antenne satellitari, fugge la sorveglianza.

Il film ci fa conoscere il chiassoso sottobosco persiano attraverso la musica di Hichkas (Nessuno), gettonato rapper iraniano dei problemi della vita quotidiana: aumento dei prezzi, disoccupazione e bisogno di non abitare più con i genitori (per poter fare liberamente l’amore). Secondo il quotidiano Etemaad, anche il leader dell’opposizione Karrubi, cedendo al richiamo della Street art, avrebbe incontrato un altro giovane rapper famoso, Sasy Mankan, che nelle sue canzoni fa il verso alla vita dei giovani di Teheran e delle altre grandi città, coniando neologismi come ‘bluetooth-iamoci’.

Un mondo in cui l’opposizione viene messa in rima, plasmata dai Pink Floyd e da Googoosh (cantante iraniana anni 70), in un paese dove a scuola si studiava il violoncello, perché la chitarra non era ben vista, come d’altra parte i murales, una mania che firma in tags la lingua persiana. E anche questo lo sappiamo sempre grazie alla rete (e a canali You Tube come ParsHipHop) perché il 60% della popolazione iraniana ha meno di trent’anni. Ma è ancora un mondo in minoranza.

Al regime e ai più piace vedere spettacoli come il “Profeta Joseph”, un telefilm con gran seguito in Iran (esportato anche in Iraq e Afganistan). “Un genere che piace”, spiega il deus ex machina Khamenei incontrando cast e produttori del telefilm, “perché ci sono religione e sentimenti, non sesso e porcherie holliwoodiane. La democrazia accompagnata dalla verità islamica, una realtà senza precedenti, si può presentare sotto forma di film per attrarre i giovani e diffondere la rivoluzione islamica che ha nuove idee per il mondo”.

Così, agli spettatori stanchi di questo spettacolo, rimaneva l’ultima speranza della scritta ‘The End’. Un finale classico americano, ma, da quando Obama ha ridotto i fondi a Iran Human Rights Documentation Center, a Freedom House e ridimensionato quelli per l’International Republican Institute, “a quegli spettatori” non resta che gridare: Obama Obama! Obama! Ya-ba-ounha, ya-ba-ma? (Obama, Obama sei con noi o con loro?); e scongiurare le notorie sanzioni, un caro prezzo che pagherà solo la popolazione, a conferma di quel detto africano: “Quando litigano gli elefanti è sempre l’erba a rimetterci”.