La Cgil non ha firmato neppure stavolta. E la sorpresa dov’è?
26 Gennaio 2009
Che la Cgil non avrebbe sottoscritto l’accordo quadro sulla struttura della contrattazione era largamente scontato. Tutti si sarebbero meravigliati se fosse accaduto il contrario. Il che è molto significativo: per un sindacato sarebbe normale negoziare e sottoscrivere intese. Per la Cgil, invece, la firma degli accordi è diventata un’eccezione. Un po’ come il caso del postino che si mette a mordere il cane. Eppure il testo dell’accordo quadro era assai migliorato rispetto a quello presentato dalla Confindustria nell’autunno scorso. Molto più essenziale e liberato da quegli aspetti (le sanzioni per le inadempienze contrattuali) che avrebbero potuto infastidire la Cgil e mettere in crisi i suoi rapporti con la Fiom. Una buona intesa dunque. Tanto da consentire ad Enrico Letta, ministro del welfare del Governo-ombra una dichiarazione nella sostanza molto severa (e simile a quelle del ministro Sacconi) nei confronti della Cgil. La riportiamo di seguito.
L’intesa sui contratti "è una svolta" e, anche se parte degli argomenti sostenuti dalla Cgil di Epifani "sono validi, ciò non dove far dare un giudizio negativo sull’accordo". "E’ una svolta – spiega – nel senso che, pur arrivando nel bel mezzo della crisi economica e finanziaria, l’intesa conclude finalmente una lunga trattativa. Anche sotto il governo Prodi – ricorda – si lavorò per valorizzare il secondo livello di contrattazione, tanto che ne protocollo sul Welfare c’era l’incentivazione della quota di produttività dei salari. Ma si tratta anche di una svolta culturale, positiva".
Secondo Letta, infatti, "si passa da modello di relazioni industriali dialettico a uno partecipativo" e inoltre, osserva, "quando la crisi sarà passata potrà contribuire a far ripartire l’Italia alla stessa velocità europea". Il ministro ombra esclude che "ci siano motivazioni politiche nelle scelte della Cgil, che purtroppo aveva espresso critiche già nelle settimane e nei mesi scorsi. "Mi auguro – conclude – che il confronto resti aperto e porti tutti i sindacati a convergere. Lo considero possibile, visto che le distanze non sono enormi". (AGI) Gio 241216 GEN 09
In pratica, si conferma quanto già notato altre volte, soprattutto in occasione dello sciopero generale del 12 dicembre: la Cgil, con le sue posizioni conservatrici è ormai un problema anche per il Pd o almeno per la parte riformista di quel partito.
Venendo al merito, perché l’organizzazione di Corso d’Italia non ha ritenuto di poter firmare? A quanto si è appreso i motivi di contrasto sono stati prevalentemente due: il primo relativo a quale saggio d’inflazione fare riferimento nella contrattazione nazionale e nella definizione dei minimi retributivi; il secondo riguardante la possibilità di negoziare deroghe in ragione di particolari situazioni settoriali e territoriali. Nel primo caso l’accordo stabilisce che per la dinamica degli effetti economici si individui un indicatore della crescita dei prezzi al consumo assumendo per il triennio – in sostituzione del tasso di inflazione programmata – un nuovo indice previsionale costruito sulla base dell’IPCA (l’indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l’Italia), depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati. L’elaborazione della previsione sarà affidata ad un soggetto terzo. Si tratta di un marchingegno un po’ singolare (del resto, la piattaforma sindacale rivendicava il criterio della "inflazione realisticamente prevedibile"), ma chi ha voluto la bicicletta (ovvero l’abbandono del criterio dell’inflazione programmata) ora dovrebbe pedalare in silenzio. Secondo la Cgil, questo meccanismo non consentirà mai di salvaguardare nella contrattazione nazionale il potere d’acquisto dei lavoratori rispetto all’inflazione reale. Un ragionamento siffatto ha di mira la questione della c.d. inflazione importata (attraverso i prodotti energetici) che, secondo la Cgil, dovrebbe essere considerata nel determinare le percentuali di incremento retributivo. In sostanza, l’adesione alle richieste della Cgil avrebbe significato il ripristino, attraverso il contratto nazionale, di una nuova scala mobile. A questa pretesa si possono fare le seguenti obiezioni: l’esclusione dell’inflazione importata era un caposaldo del protocollo del 1993, dal momento che nessuno può ritenersi esonerato dal farsi carico di un costo che grava su tutta la comunità. Ma non solo: persino ai tempi della scala mobile si teneva conto dell’inflazione importata nella individuazione dei beni che andavano a costituire il "pacchetto" di riferimento. Il secondo motivo di dissenso riguarda la questione delle deroghe. Riprendiamo il testo. Il punto 16 recita:
16. per consentire il raggiungimento di specifiche intese
per governare, direttamente nel territorio o in azienda,
situazioni di crisi o per favorire lo sviluppo economico
ed occupazionale, le specifiche intese potranno definire
apposite procedure, modalità e condizioni per modificare,
in tutto o in parte, anche in via sperimentale e
temporanea, singoli istituti economici o normativi dei
contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria.
In verità si tratta di uno degli aspetti più innovativi dell’accordo. Per uscire dal cul de sac di una contrattazione nazionale che, nel Paese dei tanti divari, esiste solo sulla carta e che genera solo lavoro sommerso, occorre mettere in discussione il principio della inderogabilità (il suo superamento è all’ordine del giorno in tutta Europa) delle norme contrattuali in forza del quale due livelli di negoziazione continuano ad essere contemplati, da noi, in una prospettiva aggiuntiva (l’intesa intersindacale usa l’aggettivo ‘accrescitiva’) e di progressivo miglioramento dei salari e delle condizioni di lavoro. In Germania, ad esempio, questa ricerca si è concretizzata nella introduzione delle “clausole di apertura” (applicate senza fare troppe storie nel 35 per cento delle aziende e nel 22 per cento degli uffici) che consentono di scendere al di sotto degli standard previsti dai contratti collettivi (è frequente la prassi delle retribuzioni agganciate agli utili).
Anche in Italia, nel 1997, la Commissione presieduta da Gino Giugni studiò – per incarico del primo Governo Prodi – il problema della riforma della contrattazione (ne facevano parte sia Massimo D’Antona che Marco Biagi) e arrivò a prefigurare un’ipotesi derogatoria incentrata sulle “clausole d’uscita” rispetto a quanto definito dalla contrattazione nazionale. Si tratta di un’esigenza tuttora valida (già recepita nella contrattazione del settore chimico) e divenuta più pressante in un ordinamento federalista e a fronte dei problemi di sviluppo del Mezzogiorno, le cui realtà produttive non sono in grado di "sostenere" una regolazione del lavoro forzatamente uniforme.
Con il rispetto dovuto all’autonomia di ogni organizzazione e con tutta la preoccupazione per gli effetti di un accordo separato in una materia tanto delicata, crediamo che la Cgil abbia torto. E sinceramente diventa sempre più problematico interpretarne la strategia. Si dice che la Cgil avrà l’occasione di rientrare in gioco quando si aprirà il confronto sulle regole della rappresentanza (di cui al seguente punto 17 dell’accordo).
17. salvo quanto già definito in specifici comparti produttivi,
i successivi accordi dovranno definire, entro 3 mesi,
nuove regole in materia di rappresentanza delle parti
nella contrattazione collettiva valutando le diverse ipotesi
che possono essere adottate con accordo, ivi
compresa la certificazione all’l N PS dei dati di iscrizione
sindacale.
Naturalmente non possiamo che auguracelo. Nessuno è tanto sciocco da perseguire lucidamente l’obiettivo di emarginare la più importante organizzazione sindacale del Paese. Ma come diceva una grande cantante degli anni ’60, le ferite più profonde sono quelle che ci facciamo con le nostre stesse mani.