La Chiesa parla al mondo, quella sul capitalismo è polemica tutta italiana
19 Ottobre 2007
di Daniela Coli
Il
cattolicesimo e la Chiesa di Roma hanno svolto e svolgono un ruolo fondamentale
nella storia dell’Occidente e in generale del mondo ─ come non tenere conto
dell’importanza delle missioni cattoliche in continenti come l’Africa e l’Asia
dove suore e sacerdoti svolgono anche funzioni essenziali per la cura dei
malati e per soccorrere i più poveri? ─
e per quanto riguarda l’Italia, pur essendo un’agnostica battezzata ─ mi
capita di constatare spesso come la Chiesa sia tra le nostre poche istituzioni
che funzionano. Quando consulto i registri dell’English College della Compagnia
di Gesù o gli archivi della Vaticana provo una sincera ammirazione per una
istituzione così efficiente e ordinata. Non si deve però chiedere al papa, e
neppure a Benedetto XVI, di cambiare mestiere e di essere d’accordo sul
mercato. La Chiesa di Roma ha una funzione universale, non nazionale, e sarebbe
sbagliato costringerla a venire meno ad alcuni principi fondanti del
cristianesimo. In altri termini, il problema di conciliare cattolicesimo e
liberalismo è un problema dell’ideologia italiana, così come lo è trascinare
nella discussione Kant, Tocqueville ─ o addirittura Marx ─ per affermare che tutti
erano liberali e non desideravano altro che il trionfo del capitalismo e il
bene dell’umanità. Come afferma Raimondo Cubeddu, un sano antagonismo è
necessario tra religione e filosofia, ma come pure tra i filosofi. Riconoscere
il valore di Kant e anche di Marx non significa necessariamente forzarli a dire
cose che non si sarebbero mai sognati di affermare. Con la filologia si fanno
miracoli e in Marx si trova pure l’elogio della borghesia, ma faremmo rigirare
Marx nella tomba se lo amputassimo della
teoria della lotta di classe e della necessaria fine del capitalismo di cui
andava tanto fiero. Il laicismo occorre innanzitutto in filosofia e significa
riconoscere i limiti della razionalità umana e anche dei filosofi, ai quali accade spesso di diventare cattivi teologi e
pure di sostituirsi al Padreterno per teorizzare la perfezione sulla terra.
Personalmente ho l’impressione che l’antropologia di Agostino e la sua teoria
della debolezza della natura umana fosse più vicina a quella delle passioni di
Hume che a Kant e a Hegel, i quali compiono l’operazione inversa a quella di
Agostino secolarizzando il cristianesimo, ma questo è un altro discorso e qui
mi interessa invece sottolineare che alla base del capitalismo vi è l’idea che
gli esseri umani agiscano mossi da interessi e passioni in cima ai quali non
c’è il bene del prossimo e del mondo. Paradossalmente, però proprio queste
passioni e interessi perfino egoistici hanno prodotto e producono vantaggi come
il passaggio dallo stato di indigenza e a quello di relativo benessere ai quali
anche civiltà diverse dalla nostra non sono indifferenti. I cinesi stanno
senz’altro meglio adesso di un secolo fa, ma dubito che il capitalismo sia la
marcia trionfale dell’umanità verso l’armonia e la pace universale, anche perché
alla base del capitalismo vi è la competizione, la mobilità sociale, la rottura
con sistemi politici avversi al libero mercato. Per questo, come Piero
Ostellino, non riesco a comprendere come Michele Salvati, Francesco Giavazzi,
Pietro Ichino e altri intellettuali di sinistra possano credere di potere
convincere la sinistra postcomunista a diventare liberale. Come Ostellino
auspico abbiano successo, ma rimane il fatto che nessun sistema di potere
politico, economico e culturale programma compiaciuto il proprio suicidio. Alla
base di tutta volontà di conciliare il liberalismo con tutto ─ da Kant a Marx e
perfino con la dottrina sociale della Chiesa ─ vi è il vecchio giochetto
italiano di cambiare tutto per non cambiare niente. Come osserva Ostellino, se
la sinistra seguisse i consigli di Giavazzi di adottare criteri di merito
nell’amministrazione pubblica e locale dovrebbe rinunciare a tutto un sistema
di alleanze, quattrini, consenso, potere, e nessuno si suicida volentieri. Sarò
maliziosa, ma ho l’impressione che alla base di tutto lo sforzo attuale di
tanti intellettuali anche di centrodestra per conciliare cattolicesimo e
liberalismo vi sia il problema di costruire il “liberalismo dal volto umano”
che ricorda quel “socialismo dal volto umano” che si era inventato il povero
Dubček per uscire dal modello comunista sovietico senza irritare i sovietici.
Trovandoci di fronte in Italia questo Leviathan costruito in mezzo secolo dal
Pci cerchiamo di esorcizzarlo col “liberalismo dal volto umano” e come i poveri
praghesi siamo tutti contenti se qualche intellettuale di sinistra tenta di
convincere i postcomunisti a diventare liberali, ma il problema reale è che il
centrodestra è maggioranza nel paese, ma è fuori dall’establishment. La stessa
dottrina sociale della Chiesa inizia con la Rerum Novarum del 1891 con Leone
XIII, (che respinge il socialismo per la lotta di classe, ma sostiene le giuste
rivendicazioni proletarie) nasce sotto l