La Chiesa sa che Stato e mercato non bastano per salvare l’economia

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La Chiesa sa che Stato e mercato non bastano per salvare l’economia

27 Novembre 2008

La prima e forse fondamentale affermazione della Dottrina sociale della Chiesa sull’economia è che la realtà economica non è mai solo economica. Lo ha scritto nella Centesimus annus Giovanni Paolo II a proposito del crollo dei sistemi economici dei paesi comunisti. Quando capita che un intero sistema economico crolli, le cause ultime vanno ricercate «non solo e non tanto nel sistema economico stesso, quanto nel fatto che l’intero sistema socio-culturale, ignorando la dimensione etica e religiosa, si è indebolito e ormai si limita solo alla produzione dei beni e dei servizi». Quando l’economia si riduce a produrre solo beni e servizi finisce anche di essere vera e propria economia.

Questo principio è stato ribadito qualche giorno fa da una articolata Nota redatta dal Pontificio Consiglio Justitia et Pax e fatta propria dalla Segreteria di Stato vaticana in vista della Conferenza ONU di Doha sul finanziamento allo sviluppo che si aprirà il 29 novembre prossimo. Anche la crisi finanziaria di oggi non è solo una crisi finanziaria e la ripresa non comporterà solo soluzioni di ordine finanziario. Non c’è una ragione “finanziaria” per concedere mutui casa insolvibili. Tantomeno ce n’è una per impacchettare quei mutui insolvibili dentro fondi di investimento per acquirenti inconsapevoli. In altre parole: non c’è una ragione finanziaria per mentire. Sembra solo finanza ed invece si tratta di morale. Quando una banca vende un mutuo-casa o lo colloca in borsa mediante un fondo di investimento, è consapevole che sta scambiando un rapporto con una famiglia? Sembra solo finanza, ed invece si tratta di un rapporto fiduciario con una famiglia. La fiducia non è un elemento in sé finanziario, eppure se non c’è la fiducia l’economia e la finanzia non funzionano. 

Parafrasando Böckenförde, potremmo dire che l’economia consuma presupposti che non è in grado di ricostituire. L’economia vive di presupposti – come per esempio la fiducia or ora vista -, non è essa che li costituisce e, quando vengono meno, non è essa a poterli reintegrare. I rapporti dell’uomo con le cose dipendono dai rapporti dell’uomo con gli altri uomini, dalla “grammatica” secondo cui funziona la società. Ma questa, appunto, non è un fatto economico.

La Nota della Santa Sede richiama questi concetti sforzandosi – bisogna dire con successo – di collegarli il più possibile con i problemi reali della finanza di oggi, anche quelli più pruriginosi. Faranno discutere certe frasi molto dure sui paradisi artificiali: «I mercati "offshore" sono stati un anello importante sia nella trasmissione dell’attuale crisi finanziaria, sia nell’aver sostenuto una trama di pratiche economiche e finanziarie dissennate:  fughe di capitali di proporzioni gigantesche, flussi "legali" motivati da obiettivi di evasione fiscale e incanalati anche attraverso la sovra/sottofatturazione dei flussi commerciali internazionali, riciclaggio dei proventi di attività illegali». Sostenendo una tesi molto simile a quanto dichiarato dal Ministro Tremonti alla Conferenza all’Università Cattolica del 19 novembre scorso, la Nota della Santa Sede  denuncia che «si è rimandato di affrontare alcune questioni importanti:  la tracciabilità dei movimenti finanziari, la rendicontazione adeguata delle operazioni sui nuovi strumenti finanziari, l’accurata valutazione del rischio». Tremonti aveva accusato la finanza di aver dimenticato la partita doppia e di aver privilegiato il conto economico rispetto a quello patrimoniale. Come dire la decisione di «vivere indebitati», «sviluppare delle attività fuori di ogni tipo di giurisdizione», puntare sull’istante e sull’azzardo, una specie di «capitalismo take away”. Non dissimili le parole della Nota di Giustizia e Pace, che ugualmente se la prende soprattutto con l’abitudine a perseguire «vantaggi che durano quanto dura la fase di euforia finanziaria». Anch’essa è dell’idea che si è agito «pressati dall’obiettivo immediato di perseguire risultati finanziari a breve», e così «si sono trascurate le dimensioni proprie della finanza: la sua vera natura, infatti, consiste nel favorire l’impiego delle risorse risparmiate là dove esse favoriscono l’economia reale, il bene-essere, lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini».

A leggere questa Nota ritorna in mente un libro dei primi anni Novanta di Michel Albert dal titolo “Capitalismo contro capitalismo”. Era un’arringa contro il turbocapitalismo americano dei tempi brevi e dell’indebitamento scriteriato e a favore del modello allora cosiddetto “renano”, ossia europeo, soprattutto tedesco, e giapponese. Gli stessi concetti sviluppati dieci anni dopo da Ronald Dore in “Capitalismo di borsa e capitalismo di welfare”. Il fatto è che se ora finisce il capitalismo di borsa non è detto che quello di welfare stia molto bene, anzi. 

Proprio questo vuole dire la Nota della Santa Sede, richiamando ripetutamente la responsabilità morale degli operatori e insistendo sulla “società civile internazionale”. Il mercato non basta, ma non è detto che gli Stati riescano a farcela. L’economia sociale di mercato non è certo quella del “troppo in fretta e troppo subito”, per dirla ancora con Tremonti, ma non è nemmeno quella di una Renania che non esiste più. L’insistenza della Santa Sede sulla morale individuale, sulla società civile come terzo elemento oltre – non “tra” ma “oltre” – il mercato e lo Stato e, soprattutto, sulla attenzione alle ripercussioni negative della crisi finanziaria sui finanziamenti allo sviluppo indica un percorso nuovo e diverso. E’ questo l’elemento più interessante della Nota del cardinale Martino.