La Cina è una superpotenza con superproblemi di identità
30 Marzo 2010
Se la Cina, dunque, non sembra apparentemente incline alla conquista del mondo, le sue azioni sembrano però mettere gli interessi cinesi quantomeno al primo posto. Diamo un sguardo ai programmi spaziali cinesi: per quanto essi siano soggetti a strettissimi standard di segretezza, è ben noto che siano aumentati significativamente in termini di dotazione negli ultimi anni. Lo dimostra, ad esempio, il test di lancio, coronato da successo, di armamenti antisatellite avvenuto nel 2007, seguito quest’anno dal lancio di un missile terra-aria esoatmosferico (che alcuni esperti occidentali di armamenti temono sia un nuovo strumento di distruzione antisatellite). All’inizio di questo mese, il governo cinese ha confermato i propri piani per il lancio di una sonda lunare in Ottobre e il lancio, previsto nel 2011, di un modulo spaziale per la prima operazione di aggancio, precondizione per il primo sbarco sulla luna previsto per il 2013. A fronte di una diminuzione del budget della NASA statunitense, la Cina rimane il solo paese, a questo punto, che compia significativi investimenti in ricerca spaziale.
Ci si chiederà allora perché la Cina dimostri tanta impazienza nel raggiungere la luna? Diciamo che Beijing si aspetta dalle sue avventure celestiali, guadagni minerari ben superiori a quelli sinora ottenuti dagli Stati Uniti. Alcuni scienziati cinesi sono convinti che lo spazio sia la vera nuova frontiera dove andare a cercare nuove potenziali fonti di energia, come l’Elio-3, oppure filoni di nuovi minerali oramai trangugiati dalla produzione industriale terrestre; Ye Zili, membro della China’s Space Science Society (Associazione delle scienze spaziali cinese, ndt), è stato citato per aver affermato pubblicamente che, quando i cinesi raggiungeranno la luna, “non si limiteranno a portare indietro un pezzettino di suolo lunare”, non velando una chiara frecciata alle passate esperienze americane. E’ noto infatti che una regolamentazione delle procedure di sfruttamento delle risorse extraterrestri non è stata ancora scritta. Quando lo sarà, la Cina vuole essere ben piazzata per dire la sua. Allo stesso modo, si spiega allora lo scatto complessivo che la Cina sta compiendo per mettersi in un certo senso alla guida del mondo: i cinesi vogliono essere certi di avere una vera voce in capitolo sulle questioni riguardanti le regole e gli standard che tanto impatto avranno sul proprio futuro.
I cinesi sembrano ben coscienti di poter scalare la classifica economica mondiale con maggiore facilità nei nuovi settori tecnologici piuttosto che nei settori industriali maturi, e forse ciò spiega il perché la Cina, da primo inquinatore mondiale, è anche divenuto il più forte sostenitore della green technology. Grazie anche a massicci sussidi pubblici, la Cina è oggi leader mondiale nelle attrezzature per il solare e l’eolico, e non è lontano dal poter stabilire gli standard nella prossima generazione di veicoli a energia pulita. Le batterie prodotte dall’industria cinese BYD sono già utilizzate in almeno un quarto dei cellulari in circolazione nel mondo; questa impresa è in testa inoltre nella corsa globale per l’adattamento di queste batterie alle autovetture, ultimo vero ostacolo per la creazione di mercato sostenibile per le auto elettriche ed ibride. Grazie alle commesse statali, la Cina detiene inoltre la più vasta flotta di veicoli a energia pulita del mondo. Al migliorare della tecnologia, c’è da scommettere che la Cina conquisterà il mercato dei consumi con i suoi veicoli “puliti” ( a questo proposito, lo scorso anno la Cina ha sorpassato gli Stati Uniti per quantità assoluta di veicoli venduti). E dato che non c’è nulla che ci impedisce di ritenere che la Cina non possa effettivamente sviluppare il prototipo tecnologico nel campo dell’industria automobilistica, è lecito che i cinesi si aspettino di poter controllare, un domani, il mercato globale dell’automobile.
Se e quando quel giorno verrà, sarà allora interessante misurare la disponibilità dei cinesi – e con loro del mondo – nel sostenere le attuali regole di libero commercio e aperta competizione globale che tanto hanno contribuito alla fondazione del loro attuale livello di pace sociale e prosperità. In verità, già oggi, si possono constatare preoccupanti mutamenti nel modo con cui la Cina si relaziona con le imprese estere. Solo dieci anni fa, la Cina faceva di tutto (e di più) per intercettare gli investimenti esteri. Oggi tutto è diverso. Il pacchetto fiscale anticrisi da 800 mld. di dollari varato dal governo cinese ha favorito principalmente le imprese di Stato a scapito di quelle del settore privato. Una nuova disciplina sulle fusioni rende le cose molto più difficili per quelle imprese straniere che vogliano acquisire imprese cinesi. Lo scorso dicembre, la camera di commercio statunitense e altre trentatré organizzazioni imprenditoriali riconducibili a ogni parte del globo, hanno inviato una lettera al governo cinese protestando contro una legislazione che, a loro avviso, impedirebbe di fatto alle imprese straniere di partecipare ai lucrativi mercati di approvvigionamento dello Stato. Il governo cinese sta tentando persino di prendere il controllo del mercato del venture capital (i capitali di rischio, ndt). Una delle più importanti società al mondo nel settore del private equity, il gruppo Carlyle, è stato recentemente obbligato a collaborare con il governo cittadino di Beijing, come condizione per ulteriori investimenti del gruppo in Cina.
Insomma l’assunto che la Cina, al crescere della sua prosperità, diventi molto simile agli Stati Uniti, o almeno un poco più in sintonia con l’agenda degli Stati Uniti, si sta rivelando una previsione sbagliata. Storicamente la Cina non è mai stata trasformata dall’esterno, ed è improbabile che incominci ora. Tra i cinesi ordinari, l’orgoglio per le prospettive del loro paese si mescola all’insistente percezione che tutto sia ancora troppo nuovo e precario. Il vertiginoso ritmo del cambiamento sta producendo un drammatico effetto soprattutto sui cinesi più giovani, conducendoli a una certa chiusura in loro stessi che si mescola ad un crescente sentimento nazionalistico (una tendenza che John Lee, membro dell’Hudson Institute, crede essere fattore decisivo nell’attuale ridefinizione di politiche ben più aggressive in materia di sicurezza, commercio e politica estera). Inutile illudersi: questa aggressività non potrà che aumentare con l’approssimarsi del cambio dei vertici del partito comunista previsto per il 2012. In questo lasso di tempo, tutti dirigenti che in un modo o in un altro giocano la loro partita per migliori posizioni nel partito “perderebbero punti se fossero percepiti troppo teneri in ogni genere di negoziazione con gli Stati Uniti,” ricorda Cheng Li della Brookings Institution. E’ evidente da tutto questo, che la Cina stia elaborando un’identità: si tratta di nazione ricca o di nazione povera, una potenza di primo piano che dovrebbe dire la sua su questioni globali oppure una nazione in via di sviluppo che dovrebbe limitarsi a pensare a sé stessa?
Una confusione identitaria, questa, che potrebbe consegnarci a ulteriori debacle, come quella consumatasi lo scorso dicembre al summit sul cambiamento climatico di Copenaghen, quando Beijing ha fatto naufragare l’accordo, rifiutandosi di adeguarsi a tagli vincolanti alle emissioni. Non è un caso che il premier Wen Jiabao, snobbando il presidente Obama, abbia inviato un rappresentante di secondo livello ad un incontro cruciale tra capi di Stato. C’è da domandarsi: se la Cina vuole un posto al tavolo che conta, perché occuparlo con una marionetta? Nella fattispecie, secondo un funzionario degli affari esteri cinese, non autorizzato ad esporsi pubblicamente ma ben addentro alle procedure del caso, pare che a Wen Jiabao non sia stato assicurato di poter assumere decisioni vincolanti al summit di Copenaghen. Piuttosto che vedersi in imbarazzo a causa della sua mancanza di mandato, il premier cinese avrebbe preferito starsene fuori (il rappresentante cinese che prese parte al suo posto al summit ha in più di un’occasione giustificato la propria incapacità ad assumere decisioni vincolanti per la sopravvenuta impossibilità di comunicare via cellulare, causa batterie scariche). A Copenaghen la Cina ha avuto il timore di finire, o al limite di vedersi imbrigliata, in una trappola tesagli da un Occidente che si strizzava l’occhio e che era tutto intento a guidare le danze delle delegazioni. In conclusione, è dunque abbastanza chiaro a cosa assomiglierà il mondo quando la Cina avrà fatto la sua parte per ridisegnarlo. Ma è altrettanto chiaro che il cammino verso quel mondo, ormai è certo, sarà ben accidentato.
© Newsweek
Traduzione di Edoardo Ferrazzani