La Cina ottiene la base alle Seychelles e Usa e India si preoccupano

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La Cina ottiene la base alle Seychelles e Usa e India si preoccupano

02 Marzo 2012

La differenza fra i politici chiacchieroni e velleitari e quelli pragmatici e concreti sta nel fatto che i primi producono aria fritta, i secondi ottengono accordi vantaggiosi. Esiste una lunga storia di incontri bilaterali fra ministri della difesa (sarebbe troppo lungo elencare i paesi di appartenenza) senza esito alcuno e c’è, al contrario, il caso di un ministro della difesa che al primo incontro della storia con un suo omologo riesce ad ottenere un accordo per l’installazione di una base navale.

È accaduto nelle Isole Seychelles alla fine di dicembre 2011, quando la visita del ministro della difesa cinese, Generale Liang Guanglie, la prima del genere nell’arcipelago dell’Oceano Indiano, ha avuto come esito l’invito da parte del governo di Victoria alla controparte cinese di istituire una base a supporto delle unità navali di Pechino impegnate nella lotta alla pirateria nell’Oceano Indiano. È stato il modo migliore per onorare il significato del motto del piccolo stato: “Finis coronat opus” (il risultato corona il lavoro).

La cosa, però, preoccupa un po’ l’India ed infastidisce gli USA. Preoccupa l’India che si sente “circondata” da Pechino nell’Oceano Indiano ed infastidisce gli USA che proprio alle Seychelles dispongono di un aeroporto agli ordini dell’US Africa Command (AFRICOM), dotato di droni -anche armati- per il controllo delle coste orientali del Corno d’Africa e per colpire le milizie fondamentaliste somale. In sostanza la Cina disporrà di una base navale nel bel mezzo dell’Oceano Indiano.

E non sarà nemmeno l’unica in quell’area, perché altre basi cinesi (ancorché non necessariamente militari) sono già presenti a Gibuti, in Oman e nello Yemen. Inoltre, Pechino ha costruito e sta ampliando quella che gli Indiani chiamano “collana di perle”, una serie di avamposti marittimi che la Repubblica popolare dispiega nell’Oceano indiano e dintorni: uno a Sittwe in Myanmar, uno a Chittagong in Bangladesh ed uno a Hambantota nello Sri Lanka.

Ma il fatto più eclatante è che Pechino da un paio d’anni sta gestendo e ampliando la base navale dello strategico porto di Gwadar in Pakistan. Gwadar è in condizione di fornire alle navi e ai sottomarini di Pechino una base permanente, con la possibilità di pattugliare attivamente il Golfo Persico allo scopo di proteggere le numerose petroliere cinesi che attraversano quell’area.

Inoltre il porto di Gwadar si appresta a diventare un fondamentale punto di transito per le importazioni di petrolio cinesi dall’area del Golfo, evitando così il transito attraverso lo Stretto di Malacca, alquanto esposto ai rischi della pirateria e dei blocchi marittimi. In tale ottica, Pechino e Islamabad hanno concordato un progetto per costruire un oleodotto da Gwadar fino alla Cina nordoccidentale e due nuove tratte ferroviarie per collegare la costa pachistana alla frontiera con la Cina.

La marina militare di Pechino dimostra poi un crescente attivismo nel Mar Cinese Meridionale, dove persiste ancora la memoria delle guerre degli anni Settanta e Ottanta fra Cina e Vietnam, fra Vietnam e Cambogia e fra Cambogia e Cina. Non passa giorno senza che le navi cinesi non disturbino pescherecci, navi da ricerca scientifica, da sorveglianza sismica e da prospezioni petrolifere o altre imbarcazioni di paesi dell’area, in modo particolare Filippine e Vietnam.

Emblematico, fra i tantissimi, è stato l’incidente occorso il 26 maggio 2011, quando tre imbarcazioni della società cinese di sorveglianza oceanica hanno disturbato, nella Zona Economica Esclusiva vietnamita, una nave della compagnia Petrovietnam tranciando un cavo per il rimorchio di apparecchiature di sorveglianza. E sono frequenti anche i sorvoli a bassa quota da parte dei caccia di Pechino sopra zone contese da due o più paesi.

A poco servono i “Dialoghi di Shangri-La” fra tutte le potenze dell’area organizzati annualmente a Singapore dall’Istituto Internazionale di Studi Strategici di Londra. E a ben poco serve la Dichiarazione sulla Condotta delle Parti nel Mar Cinese Meridionale, siglata nel 2002 dalla Cina e dai dieci paesi aderenti all’ASEAN, Associazione dei paesi del Sudest asiatico. Tale carta si limita a dichiarazioni di principio sull’opportunità di risolvere pacificamente le dispute, ma dal momento che non è legalmente vincolante lascia ampio spazio di manovra alla prepotenza cinese.

Pechino si sta dotando della prima portaerei e tutto fa pensare che verrà schierata proprio in quel delicato mare. E intanto, per mettersi dalla parte della ragione, il Vietnam risponde acquistando dalla Russia sei sottomarini d’attacco classe Kilo, aerei da caccia Su-30 e missili superficie-aria. I due paesi hanno una lunga storia di tensioni e rivendicazioni.

Nel 1974 la Cina si impadronì con la forza delle Isole Paracel, all’epoca appartenenti al Vietnam del Sud, e da allora il Vietnam unificato non ha mai smesso di rivendicarle. Nel 1988 i due paesi hanno combattuto per il possesso del Johnson South Reef: una fregata di Pechino affondò due unità navali vietnamite e sparò sulle truppe vietnamite che occupavano il Reef, causando decine di morti. Oggi i frequenti arresti in area di pescatori vietnamiti da parte cinese non fanno certo calare la tensione.

Ma la Cina è interessata anche ai mari freddi. Da anni Pechino dispone di due basi in Antartico, denominate rispettivamente “Grande Muraglia” e “Zhongshan”, con finalità più scientifiche che commerciali o militari. Dal 1984 in poi la Cina ha attivato ben 26 spedizioni scientifiche nell’Antartico.

Il Polo a cui la Cina è più interessata, però, è il Nord. Nel 2008 Pechino ha chiesto e ottenuto di entrare a far parte del Consiglio Artico (un organismo di cui fanno parte tutti i paesi rivieraschi dell’Oceano Artico) nell’evidente intento di occupare un posto privilegiato in vista delle nuove possibilità che verranno offerte dallo scioglimento della calotta polare (nuove vie di comunicazione lungo il “passaggio a Nordest” e nuove, ingenti risorse naturali da sfruttare).

La possibilità di ridurre le rotte marittime da e per l’Europa da 15.000 miglia a meno di 8.000 e l’opportunità di partecipare allo sfruttamento del petrolio e del gas dell’Artico (25% di tutte le riserve mondiali) ha indotto le autorità cinesi a mettere radici anche nell’Artico. E così è stata allestita la stazione polare “Fiume Giallo” a Ny Alesund nelle isole norvegesi Svalbard.

Nelle acque dell’Artico opera attivamente anche la nave da ricerca polare “Xuelong” (dragone delle nevi). È la medesima nave che nel 2005 era stata allontanata a forza dalle fregate di Taipei fuori dalle acque territoriali di Taiwan a causa di presunte attività spionistiche. Nel 2009 la nave era stata autorizzata ad effettuare una visita di cortesia nella baia taiwanese di Kaohsiung, ma solo previa disattivazione di tutti i suoi sospetti equipaggiamenti elettronici. Ma ora Pechino ha deciso che sfruttare le risorse artiche può essere più remunerativo che spiare Taiwan, e il “Dragone delle nevi” è stato spostato nell’Artico.

Oltre alla Norvegia, la Cina non disdegna nemmeno l’Islanda. Pechino guarda all’isola con grande attenzione, vi ha stabilito un’ambasciata alquanto numerosa e sta negoziando con Reykjavik l’istituzione di una grande base navale a supporto delle attività cinesi di pesca nell’Artico.

È ora di preoccuparsi, dunque, a causa del crescente attivismo cinese all’estero? Non esageriamo. In fin dei conti la Cina è l’unico paese membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a perseguire ufficialmente la politica di non schierare truppe all’estero. Inoltre, la qualità e soprattutto la quantità della sua proiezione internazionale è di gran lunga inferiore a quella della superpotenza americana. E allora nessuna preoccupazione. Per il momento.