La Cina si avvicina e Obama deve prendere delle decisioni
20 Luglio 2011
La spettacolare azione dei SEAL americani e la morte di Osama, al di là degli aspetti tecnico-militari, ha determinato all’interno dell’amministrazione del Presidente liberal un ripensamento delle strategie di politica estera e una conseguente rifocalizzazione delle priorità e interessi strategici. All’interno del mondo accademico e dei think tank americani si nota un certo fermento, e così si tende a contenere i facili entusiasmi derivati dalla sconfitta del nemico storico degli Usa dopo l’11 settembre 2001 e a delineare i futuri scenari per l’unica superpotenza rimasta dopo il crollo dell’Urss.
Secondo lo studioso dell’American Enterprise Institute Jonah Goldberg, infatti, la fine di Bin Laden segna per l’amministrazione Obama il passaggio dalla domestic policy al confronto con la realtà mondiale, ed in particolare con l’ascesa del gigante cinese. A tal fine lo stesso Obama, fin dal dopo elezioni di mid term del 2010, aveva inaugurato una politica estera bipartisan con la ripresa dei negoziati START (Strategic Arms Reduction Treaty) per la riduzione delle armi atomiche e mostrato una nuova attenzione nei confronti dei paesi dell’Asia orientale.
È soprattutto a seguito della recente visita in Estremo Oriente, però, che l’amministrazione Obama ha ufficialmente preso atto delle nuove dinamiche geopolitiche, aprendosi così al confronto ufficiale con la nuova realtà internazionale con spirito innovativo ed audace. In sostanza la nuova direttiva della politica estera americana mira, in particolar modo nei confronti della potenza emergente cinese, a delineare una nuova agenda di lavori che si prefigge lo scopo di inserire il colosso asiatico nell’ampio contesto dell’economia globale, contro la proliferazione delle armi nucleari, per la sicurezza ambientale e militare dello scacchiere asiatico.
Concretamente, Obama mira ad una partnership strategica con la Cina che copra a 360 gradi l’intero pacchetto delle issues in discussione. Ciò malgrado, la svolta bipartisan delle elezioni di mid term del 2010 non elimina le critiche da parte degli ambienti più conservatori che chiedono una politica più dura nei confronti della Cina. Il risultato è che alla fine a prevalere è la visione strategica di lungo termine, che fa della Cina uno “stakeholder” responsabile agli occhi degli Usa soprattutto nelle spinose questioni dell’Iran, della Corea del Nord, e degli equilibri finanziari (essendo la Cina creditore di parte del debito americano).
Le relazioni strategiche Usa-Cina devono tener conto di vari fattori di attrito. Tra questi l’economia, in particolare da un lato una crisi finanziaria globale che grava sulle pacifiche relazioni tra i due paesi, dall’altro la mancata rivalutazione della valuta cinese dello yuan che permette alla Cina di promuovere politiche commerciali di dumping.
A ciò devono poi aggiungersi le polemiche affermazioni del presidente cinese Hu Jintao nel corso della sua visita negli Usa del gennaio scorso sull’amministrazione americana, “rea” di voler contenere l’ascesa del suo paese. Affermazioni mitigate poi dallo stesso Hu Jintao, che ha dichiarato nella conferenza stampa come “Le società sono più armoniose, le nazioni hanno maggiori successi e lo stesso mondo risulta più giusto quando i diritti e le responsabilità di tutte le nazioni e tutte le persone sono sostenute, compresi i diritti universali di ogni essere umano”. Tale discorso non è passato inosservato agli occhi della critica americana specializzata in questioni internazionali.
In effetti è apparso evidente come, se da una parte si dà atto al presidente Hu di una relativa apertura in termini di riconoscimento dei diritti umani, dall’altra si accusa Obama di essere troppo “soft” nei confronti del fattore cinese.
Proprio le polemiche che periodicamente scoppiano negli Stati Uniti in tema di diritti umani e libertà violate in Cina (temi nei confronti dei quali gli Usa sono tradizionalmente sensibili), mettono lungo la strada della svolta di Obama notevoli ostacoli, e così è necessario allargare il nostro sguardo analitico alla ricerca dei motivi reali che hanno spinto il presidente americano a dichiarare l’Estremo Oriente e la Cina priorità della politica estera americana del XXI secolo.
Innanzitutto è da rilevare che dopo la fine della Guerra Fredda l’approccio americano nei confronti del gigante cinese e l’estremo oriente in toto non poteva ricalcare i vecchi clichés che facevano della Cina una pedina in chiave antisovietica e lo scacchiere asiatico un campo di lotta per impedire l’affermazione del comunismo secondo i dettami della “teoria del dòmino” (enunciata nel 1954 dal Presidente americano Eisenhower).
Nel giugno 2005 un artefice della politica su indicata di Henry Kissinger sostenne che la Cina, pur non essendo una democrazia liberal-democratica, non governava con la forza bruta come avveniva nell’ex Urss. Alla luce di ciò, gli Usa dovevano impegnarsi ad integrare la Cina in un contesto multilaterale asiatico e stabilizzare tutta l’area. In seguito alla osservazione di Kissinger altri esponenti del mondo accademico e dei think tank americani hanno fornito analisi che hanno contribuito a determinare la recente svolta obamiana.
Joshua Cooper Ramo, un esponente della scuola kissingeriana, ha sostenuto che nell’approccio alla Cina occorre tener conto che nell’ottica cinese il cambiamento, il revisionismo, il dinamismo delle posizioni politiche hanno un valore dirimente, mentre in Occidente vi è la tendenza al controllo meccanicistico degli eventi e al determinismo, approcci che talvolta non facilitano la comprensione della realtà mondiale fluida ed in divenire quale è quella del post guerra fredda.
Ancora in un percorso a ritroso alla ricerca delle direttive che hanno influito sulla recente svolta di Obama, possiamo citare il discorso tenuto il 27 marzo 2007 dal Vicesegretario di Stato per l’Estremo Oriente, nel quale si evinse chiaramente come la base di ogni politica Usa nei confronti della Cina non si doveva basare sul contenimento di kennaniana memoria (da George Kennan, diplomatico USA e padre della teoria del containment enunciata dal presidente USA Truman nel 1947), quanto sulla ricerca di influenzare le scelte cinesi in modo tale da farne un partner affidabile e responsabile nella gestione degli equilibri mondiali.
A dar maggior sostegno alla scelta obamiana, ecco venirci in aiuto la tesi di un altro importante studioso della realtà cinese, Giovanni Andornino, il quale ha sostenuto acutamente come una politica troppo “tough line” nei confronti della Cina potrebbe oggi avere effetti deleteri su quello stesso ordine internazionale liberale che gli Usa si sforzano contemporaneamente di costruire.
Il politologo statunitense Zbgniew Brzezinski ha sostenuto come il compito degli Usa nei confronti della Cina sia reso ancora più difficile dalla presenza di una componente idealistica che da caratterizza i rappresentanti della politica estera americana. Più precisamente, lo studioso di origine polacca evidenzia un possibile motivo di frizione con la Cina nel background di valori, di idee, di concetti, di direttive di cui gli Usa si sono fatti portatori sin dalle origini (si pensi alla difesa dell’indipendenza dalla madre patria britannica, alla lotta contro i totalitarismi nel periodo della guerra fredda, oggi alle idee di difesa della dignità umana, di pluralismo religioso ed economia di mercato) e che costituiscono aspetti determinanti della politica estera americana.
Sulla base di quanto detto, risultano appropriate le considerazioni di Martin Feldstein (Irving Kristol Award per il 2011 presso l’American Enterprise Institute), che nel saggio “America’s challenges” ha affermato che l’ascesa della Cina costituisce per gli Usa una sfida tecnologica, psicologica, economica, sistemica.
(Fine prima puntata. Continua…)
(Tratto dal sito della fondazione Magna Carta)