La Cina, vittima della sua ultima psicosi, censura il gelsomino
13 Maggio 2011
Altro che mettete dei fiori nei vostri cannoni! In Cina li hanno messi al bando prima ancora che si potesse dare fuoco alle polveri. Le autorità di Pechino, infatti, hanno vietato tassativamente la vendita e la circolazione anche solo della parola scritta “gelsomino”, per paura che il “virus rivoluzionario”, di cui il profumato fiore è diventato simbolo, possa infettare l’immacolato e iperorganizzato sistema della seconda superpotenza mondiale. Si tratta dell’ennesima, (stavolta) epica psicosi made in Cina.
A partire dal mese di febbraio, quando anonimi (e del tutto inutili) richiami a unirsi alla “Jasmine revolution” iniziarono a diffondersi in rete anche in Cina, per alzare la voce contro gli abusi del potere e reclamare libertà d’espressione, i caratteri usati per scrivere la parola gelsomino sono stati ripetutamente bloccati e persino i filmati in cui il presidente Hu Jintao cantava “Mo Li Hua” (“Addio mio bel gelsomino”) sono stati man mano rimossi dal web. Spaventati dal presunto potere sovversivo del fiore, i funzionari del governo cinese hanno deciso anche di cancellare il celebre “Festival Internazionale del Gelsomino”, che si tiene ogni anno a Hengxian.
Senza contare che i coltivatori di gelsomino – uno dei fiori più diffusi in Cina e usato spesso anche per profumare tè, cibi e marmellate – sono in grande difficoltà perché i prezzi sono crollati da marzo, quando le autorità ne hanno vietato la vendita in una serie di mercati della capitale. Insomma, sembrava il germoglio di un business, ma la censura preventiva di Pechino (simbolo di un Paese ancora vittima di un sistema, quello del comunismo, solo ‘fisicamente’ morto) ne ha soffocato il mercato e ha tolto alla nazione il fiore che ha per secoli ispirato gli artisti e che è stato millenariamente emblema di armonia e prosperità.
Mentre il governo e l’Ufficio di Sicurezza Pubblica di Pechino si rifiutano di dare una reale giustificazione al divieto, vengono avanzate spiegazioni assurde del tipo che i gelsomini sono “contaminati dalle radiazioni di Fukushima”, o che “contengono veleni letali”, o che “sono un’arma degli adepti della setta religiosa perseguitata Falun Gong, oppure, più semplicemente che “non sono più di moda”.
Si sa, il popolo cinese è molto spesso vittima di bizzarre paure portate da loro stessi all’eccesso – ultima in ordine di tempo la chiusura, all’inizio inspiegabile di tutti i negozi gestiti dalla comunità cinese all’Esquilino per il timore che si avverasse l’assurda leggenda del terremoto che avrebbe raso al suolo Roma due giorni fa.
Ma quella del gelsomino ‘fiore della discordia’, potrebbe essere una piscosi dettata dal timore che la situazione geopolitica della Cina possa essere compromessa da un agente esterno che ne metta in discussione alcuni equilibri già precari, vedi quello etnico, come è già successo in Libia o in Siria. Altro dettaglio da non sottovalutare è il problematico rapporto con gli Stati Uniti. Pechino, infatti, è il Paese che più ha investito negli anni scorsi in buoni del Tesoro americani, e che adesso vede in pericolo.
Altro tasto dolente per la nazione che fu di Mao è che la recente e inaspettata morte di Bin Laden possa permettere a Washington di liberarsi del fardello Afghanistan per dedicarsi alla sua vera priorità: il suo riequilibrio strategico sul versante asiatico, quello del Grande Oriente (non più del Medio). Cosa che metterebbe, prima del previsto, i bastoni tra le ruote a Pechino che dal 2001 in poi si era delineata come potenza egemone dell’area.
Insomma, il vento in Cina profumerà sempre meno di gelsomini. Sempre che abbia mai effettivamente soffiato.