La Colonna infame, secondo capitolo
24 Marzo 2020
Riepilogo puntate precedenti
Secondo capitolo
Questa, come ognun sa, si regolava principalmente, qui, come a un di presso in tutta Europa, sull’autorità degli scrittori; per la ragion semplicissima che, in una gran parte de’ casi, non ce n’era altra su cui regolarsi. Erano due conseguenze naturali del non esserci complessi di leggi composte con un intento generale, che gl’interpreti si facessero legislatori, e fossero a un di presso ricevuti come tali; giacché, quando le cose necessarie non son fatte da chi toccherebbe, o non son fatte in maniera di poter servire, nasce ugualmente, in alcuni il pensiero di farle, negli altri la disposizione ad accettarle, da chiunque sian fatte. L’operar senza regole è il più faticoso e difficile mestiere di questo mondo.
Gli statuti di Milano, per esempio, non prescrivevano altre norme, né condizioni alla facoltà di mettere un uomo alla tortura (facoltà ammessa implicitamente, e riguardata ormai come connaturale al diritto di giudicare), se non che l’accusa fosse confermata dalla fama, e il delitto portasse pena di sangue, e ci fossero indizi(3) ; ma senza dir quali. La legge romana, che aveva vigore ne’ casi a cui non provvedessero gli statuti, non lo dice di più, benché ci adopri più parole. “I giudici non devono cominciar da’ tormenti, ma servirsi prima d’argomenti verisimili e probabili; e se, condotti da questi, quasi da indizi sicuri, credono di dover venire ai tormenti, per iscoprir la verità, lo facciano, quando la condizion della persona lo permette.(4) ” Anzi, in questa legge è espressamente istituito l’arbitrio del giudice sulla qualità e sul valore degl’indizi; arbitrio che negli statuti di Milano fu poi sottinteso.
Nelle così dette Nuove Costituzioni promulgate per ordine di Carlo V, la tortura non è neppur nominata; e da quelle fino all’epoca del nostro processo, e per molto tempo dopo, si trovano bensì, e in gran quantità, atti legislativi ne’ quali è intimata come pena; nessuno, ch’io sappia, in cui sia regolata la facoltà d’adoprarla come mezzo di prova.
E anche di questo si vede facilmente la ragione: l’effetto era diventato causa; il legislatore, qui come altrove, aveva trovato, principalmente per quella parte che chiamiam procedura, un supplente, che faceva, non solo sentir meno, ma quasi dimenticare la necessità del suo, dirò così, intervento. Gli scrittori, principalmente dal tempo in cui cominciarono a diminuire i semplici commentari sulle leggi romane, e a crescer l’opere composte con un ordine più indipendente, sia su tutta la pratica criminale, sia su questo o quel punto speciale, gli scrittori trattavan la materia con metodi complessivi, e insieme con un lavoro minuto delle parti; moltiplicavan le leggi con l’interpretarle, stendendone, per analogia, l’applicazione ad altri casi, cavando regole generali da leggi speciali; e, quando questo non bastava, supplivan del loro, con quelle regole che gli paressero più fondate sulla ragione, sull’equità, sul diritto naturale, dove concordemente, anzi copiandosi e citandosi gli uni con gli altri, dove con disparità di pareri: e i giudici, dotti, e alcuni anche autori, in quella scienza, avevano, quasi in qualunque caso, e in qualunque circostanza d’un caso, decisioni da seguire o da scegliere. La legge, dico, era divenuta una scienza; anzi alla scienza, cioè al diritto romano interpretato da essa, a quelle antiche leggi de’ diversi paesi che lo studio e l’autorità crescente del diritto romano non aveva fatte dimenticare, e ch’erano ugualmente interpretate dalla scienza, alle consuetudini approvate da essa, a’ suoi precetti passati in consuetudini, era quasi unicamente appropriato il nome di legge: gli atti dell’autorità sovrana, qualunque fosse, si chiamavano ordini, decreti, gride, o con altrettali nomi; e avevano annessa non so quale idea d’occasionale e di temporario. Per citarne un esempio, le gride de’ governatori di Milano, l’autorità de’ quali era anche legislativa, non valevano che per quanto durava il governo de’ loro autori; e il primo atto del successore era di confermarle provvisoriamente. Ogni gridario, come lo chiamavano, era una specie d’Editto del Pretore, composto un poco alla volta, e in diverse occasioni; la scienza invece, lavorando sempre, e lavorando sul tutto; modificandosi, ma insensibilmente; avendo sempre per maestri quelli che avevan cominciato dall’esser suoi discepoli, era, direi quasi, una revisione continua, e in parte una compilazione continua delle Dodici Tavole, affidata o abbandonata a un decemvirato perpetuo.
Questa così generale e così durevole autorità di privati sulle leggi, fu poi, quando si vide insieme la convenienza e la possibilità d’abolirla, col far nuove, e più intere, e più precise, e più ordinate leggi, fu, dico, e, se non m’inganno, è ancora riguardata come un fatto strano e come un fatto funesto all’umanità, principalmente nella parte criminale, e più principalmente nel punto della procedura. Quanto fosse naturale s’è accennato; e del resto, non era un fatto nuovo, ma un’estensione, dirò così, straordinaria d’un fatto antichissimo, e forse, in altre proporzioni, perenne; giacché, per quanto le leggi possano essere particolarizzate, non cesseranno forse mai d’aver bisogno d’interpreti, né cesserà forse mai che i giudici deferiscano, dove più, dove meno, ai più riputati tra quelli, come ad uomini che, di proposito, e con un intento generale, hanno studiato la cosa prima di loro. E non so se un più tranquillo e accurato esame non facesse trovare che fu anche, comparativamente e relativamente, un bene; perché succedeva a uno stato di cose molto peggiore.
È difficile infatti che uomini i quali considerano una generalità di casi possibili, cercandone le regole nell’interpretazion di leggi positive, o in più universali ed alti princìpi, consiglin cose più inique, più insensate, più violente, più capricciose di quelle che può consigliar l’arbitrio, ne’ casi diversi, in una pratica così facilmente appassionata. La quantità stessa de’ volumi e degli autori, la moltiplicità e, dirò così, lo sminuzzamento progressivo delle regole da essi prescritte, sarebbero un indizio dell’intenzione di restringer l’arbitrio, e di guidarlo (per quanto era possibile) secondo la ragione e verso la giustizia; giacché non ci vuol tanto per istruir gli uomini ad abusar della forza, a seconda de’ casi. Non si lavora a fare e a ritagliar finimenti al cavallo che si vuol lasciar correre a suo capriccio; gli si leva la briglia, se l’ha.
Ma così avvien per il solito nelle riforme umane che si fanno per gradi (parlo delle vere e giuste riforme; non di tutte le cose che ne hanno preso il nome): ai primi che le intraprendono, par molto di modificare la cosa, di correggerla in varie parti, di levare, d’aggiungere: quelli che vengon dopo, e alle volte molto tempo dopo, trovandola, e con ragione, ancora cattiva, si fermano facilmente alla cagion più prossima, maledicono come autori della cosa quelli di cui porta il nome, perché le hanno data la forma con la quale continua a vivere e a dominare.
In questo errore, diremmo quasi invidiabile, quando è compagno di grandi e benefiche imprese, ci par che sia caduto, con altri uomini insigni del suo tempo, l’autore dell‘Osservazioni sulla tortura. Quanto è forte e fondato nel dimostrar l’assurdità, l’ingiustizia e la crudeltà di quell’abbominevole pratica, altrettanto ci pare che vada, osiam dire, in fretta nell’attribuire all’autorità degli scrittori ciò ch’essa aveva di più odioso. E non è certamente la dimenticanza della nostra inferiorità che ci dia il coraggio di contradir liberamente, come siamo per fare, l’opinion d’un uomo così illustre, e sostenuta in un libro così generoso; ma la confidenza nel vantaggio d’esser venuti dopo, e di poter facilmente (prendendo per punto principale ciò che per lui era affatto accessorio) guardar con occhio più tranquillo, nel complesso de’ suoi effetti, e nella differenza de’ tempi, come cosa morta, e passata nella storia, un fatto ch’egli aveva a combattere, come ancor dominante, come un ostacolo attuale a nuove e desiderabilissime riforme. E a ogni modo, quel fatto è talmente legato col suo e nostro argomento, che l’uno e l’altro eravam naturalmente condotti a dirne qualcosa in generale: il Verri perché, dall’essere quell’autorità riconosciuta al tempo dell’iniquo giudizio, induceva che ne fosse complice, e in gran parte cagione; noi perché, osservando ciò ch’essa prescriveva o insegnava ne’ vari particolari, ce ne dovrem servire come d’un criterio, sussidiario ma importantissimo, per dimostrar più vivamente l’iniquità, dirò così, individuale del giudizio medesimo.
“È certo”, dice l’ingegnoso ma preoccupato scrittore, “che niente sta scritto nelle leggi nostre, né sulle persone che possono mettersi alla tortura, né sulle occasioni nelle quali possano applicarvisi, né sul modo di tormentare, se col foco o col dislogamento e strazio delle membra, né sul tempo per cui duri lo spasimo, né sul numero delle volte da ripeterlo; tutto questo strazio si fa sopra gli uomini coll’autorità del giudice, unicamente appoggiato alle dottrine dei criminalisti citati.(5) ”
Ma in quelle leggi nostre stava scritta la tortura; ma in quelle d’una gran parte d’Europa(6) , ma nelle romane, ch’ebbero per tanto tempo nome e autorità di diritto comune, stava scritta la tortura. La questione dev’esser dunque, se i criminalisti interpreti (così li chiameremo, per distinguerli da quelli ch’ebbero il merito e la fortuna di sbandirli per sempre) sian venuti a render la tortura più o meno atroce di quel che fosse in mano dell’arbitrio, a cui la legge l’abbandonava quasi affatto; e il Verri medesimo aveva, in quel libro medesimo, addotta, o almeno accennata, la prova più forte in loro favore. “Farinaccio istesso,” dice l’illustre scrittore, “parlando de’ suoi tempi, asserisce che i giudici, per il diletto che provavano nel tormentare i rei, inventavano nuove specie di tormenti; eccone le parole: Judices qui propter delectationem, quam habent torquendi reos, inveniunt novas tormentorum species(7) .”
Ho detto: in loro favore; perché l’intimazione ai giudici d’astenersi dall’inventar nuove maniere di tormentare, e in generale le riprensioni e i lamenti che attestano insieme la sfrenata e inventiva crudeltà dell’arbitrio, e l’intenzion, se non altro, di reprimerla e di svergognarla, non sono tanto del Farinacci, quanto de’ criminalisti, direi quasi, in genere. Le parole stesse trascritte qui sopra, quel dottore le prende da uno più antico, Francesco dal Bruno, il quale le cita come d’uno più antico ancora, Angelo d’Arezzo, con altre gravi e forti, che diamo qui tradotte: “giudici, arrabbiati e perversi, che saranno da Dio confusi; giudici ignoranti, perché l’uom sapiente abborrisce tali cose, e dà forma alla scienza col lume delle virtù(8) “.
Prima di tutti questi, nel secolo XIII, Guido da Suzara, trattando della tortura, e applicando a quest’argomento le parole d’un rescritto di Costanzo, sulla custodia del reo, dice esser suo intento “d’imporre qualche moderazione ai giudici che incrudeliscono senza misura.(9) ”
Nel secolo seguente, Baldo applica il celebre rescritto di Costantino contro il padrone che uccide il servo, “ai giudici che squarcian le carni del reo, perché confessi”; e vuole che, se questo muore ne’ tormenti, il giudice sia decapitato, come omicida(10).
Più tardi, Paride dal Pozzo inveisce contro que’ giudici che, “assetati di sangue, anelano a scannare, non per fine di riparazione né d’esempio, ma come per un loro vanto (propter gloriam eorum); e sono per ciò da riguardarsi come omicidi(11)”.
“Badi il giudice di non adoprar tormenti ricercati e inusitati; perché chi fa tali cose è degno d’esser chiamato carnefice piuttosto che giudice,” scrive Giulio Claro(12) .
“Bisogna alzar la voce (clamandum est) contro que’ giudici severi e crudeli che, per acquistare una gloria vana, e per salire, con questo mezzo, a più alti posti, impongono ai miseri rei nuove specie di tormenti,” scrive Antonio Gomez(13) .
Diletto e gloria! quali passioni, in qual soggetto! Voluttà nel tormentare uomini, orgoglio nel soggiogare uomini imprigionati! Ma almeno quelli che le svelavano, non si può credere che intendessero di favorirle.
A queste testimonianze (e altre simili se ne dovrà allegare or ora) aggiungeremo qui, che, ne’ libri su questa materia, che abbiam potuti vedere, non ci è mai accaduto di trovar lamenti contro de’ giudici che adoprassero tormenti troppo leggieri. E se, in quelli che non abbiam visti, ci si mostrasse una tal cosa, ci parrebbe una curiosità davvero.
Alcuni de’ nomi che abbiam citati, e di quelli che avremo a citare, son messi dal Verri in una lista di “scrittori, i quali se avessero esposto le crudeli loro dottrine e la metodica descrizione de’ raffinati loro spasimi in lingua volgare, e con uno stile di cui la rozzezza e la barbarie non allontanasse le persone sensate e colte dall’esaminarli, non potevano essere riguardati se non coll’occhio medesimo col quale si rimira il carnefice, cioè con orrore e ignominia(14) “. Certo, l’orrore per quello che rivelano, non può esser troppo; è giustissimo questo sentimento anche per quello che ammettevano; ma se, per quello che ci misero, o ci vollero metter del loro, l’orrore sia un giusto sentimento, e l’ignominia una giusta retribuzione, il poco che abbiam visto, deve bastare almeno a farne dubitare.
È vero che ne’ loro libri, o, per dir meglio, in qualcheduno, sono, più che nelle leggi, descritte le varie specie di tormenti; ma come consuetudini invalse e radicate nella pratica, non come ritrovati degli scrittori. E Ippolito Marsigli, scrittore e giudice del secolo decimoquinto, che ne fa un’atroce, strana e ributtante lista, allegando anche la sua esperienza, chiama però bestiali que’ giudici che ne inventan di nuovi.(15)
Furono quegli scrittori, è vero, che misero in campo la questione del numero delle volte che lo spasimo potesse esser ripetuto; ma (e avremo occasion di vederlo) per impor limiti e condizioni all’arbitrio, profittando dell’indeterminate e ambigue indicazioni che ne somministrava il diritto romano.
Furon essi, è vero, che trattaron del tempo che potesse durar lo spasimo; ma non per altro che per imporre, anche in questo, qualche misura all’instancabile crudeltà, che non ne aveva dalla legge, “a certi giudici, non meno ignoranti che iniqui, i quali tormentano un uomo per tre o quattr’ore,” dice il Farinacci(16) ; “a certi giudici iniquissimi e scelleratissimi, levati dalla feccia, privi di scienza, di virtù, di ragione, i quali, quand’hanno in loro potere un accusato, forse a torto (forte indebite), non gli parlano che tenendolo al tormento; e se non confessa quel ch’essi vorrebbero, lo lascian lì pendente alla fune, per un giorno, per una notte intera,” aveva detto il Marsigli(17) , circa un secolo prima.
In questi passi, e in qualche altro de’ citati sopra, si può anche notare come alla crudeltà cerchino d’associar l’idea dell’ignoranza. E per la ragion contraria, raccomandano, in nome della scienza, non meno che della coscienza, la moderazione, la benignità, la mansuetudine. Parole che fanno rabbia, applicate a una tal cosa; ma che insieme fanno vedere se l’intento di quegli scrittori era d’aizzare il mostro, o d’ammansarlo.
Riguardo poi alle persone che potessero esser messe alla tortura, non vedo cos’importi che niente ci fosse nelle leggi propriamente nostre, quando c’era molto, relativamente al resto di questa trista materia, nelle leggi romane, le quali erano in fatto leggi nostre anch’esse.
“Uomini”, prosegue il Verri, “ignoranti e feroci, i quali senza esaminare donde emani il diritto di punire i delitti, qual sia il fine per cui si puniscono, quale la norma onde graduare la gravezza dei delitti, qual debba esser la proporzione tra i delitti e le pene, se un uomo possa mai costringersi a rinunziare alla difesa propria, e simili principii, dai quali, intimamente conosciuti, possono unicamente dedursi le naturali conseguenze più conformi alla ragione ed al bene della società; uomini, dico, oscuri e privati, con tristissimo raffinamento ridussero a sistema e gravemente pubblicarono la scienza di tormentare altri uomini, con quella tranquillità medesima colla quale si descrive l’arte di rimediare ai mali del corpo umano: e furono essi obbediti e considerati come legislatori, e si fece un serio e placido oggetto di studio, e si accolsero alle librerie legali i crudeli scrittori che insegnarono a sconnettere con industrioso spasimo le membra degli uomini vivi, e a raffinarlo colla lentezza e coll’aggiunta di più tormenti, onde rendere più desolante e acuta l’angoscia e l’esterminio.”
Ma come mai ad uomini oscuri e ignoranti poté esser concessa tanta autorità? dico oscuri al loro tempo, e ignoranti riguardo ad esso; ché la questione è necessariamente relativa; e si tratta di vedere, non già se quegli scrittori avessero i lumi che si posson desiderare in un legislatore, ma se n’avessero più o meno di coloro che prima applicavan le leggi da sé, e in gran parte se le facevan da sé. E come mai era più feroce l’uomo che lavorava teorie, e le discuteva dinanzi al pubblico, dell’uomo ch’esercitava l’arbitrio in privato, sopra chi gli resisteva?
In quanto poi alle questioni accennate dal Verri, guai se la soluzione della prima, “donde emani il diritto di punire i delitti”, fosse necessaria per compilar con discrezione delle leggi penali; poiché si poté bene, al tempo del Verri, crederla sciolta; ma ora (e per fortuna, giacché è men male l’agitarsi nel dubbio, che il riposar nell’errore) è più controversa che mai. E l’altre, dico in generale tutte le questioni d’un’importanza più immediata, e più pratica, erano forse sciolte e sciolte a dovere, erano almeno discusse, esaminate quando gli scrittori comparvero? Vennero essi forse a confondere un ordine stabilito di più giusti e umani principi, a balzar di posto dottrine più sapienti, a turbar, dirò così, il possesso a una giurisprudenza più ragionata e più ragionevole? A questo possiamo risponder francamente di no, anche noi; e ciò basta all’assunto. Ma vorremmo che qualcheduno di quelli che ne sanno, esaminasse se piuttosto non furon essi che, costretti, appunto perché privati e non legislatori, a render ragione delle loro decisioni, richiamaron la materia a princìpi generali, raccogliendo e ordinando quelli che sono sparsi nelle leggi romane, e cercandone altri nell’idea universale del diritto; se non furon essi che, lavorando a costruir, con rottami e con nuovi materiali, una pratica criminale intera ed una, prepararono il concetto, indicarono la possibilità, e in parte l’ordine, d’una legislazion criminale intera ed una; essi che, ideando una forma generale, aprirono ad altri scrittori, dai quali furono troppo sommariamente giudicati, la strada a ideare una generale riforma.
In quanto finalmente all’accusa, così generale e così nuda, d’aver raffinato i tormenti, abbiamo in vece veduto che fu cosa dalla maggior parte di loro espressamente detestata e, per quanto stava in loro, proibita. Molti de’ luoghi che abbiam riferiti possono anche servire a lavarli in parte dalla taccia d’averne trattato con quell’impassibile tranquillità. Ci si permetta di citarne un altro che parrebbe quasi un’anticipata protesta. “Non posso che dar nelle furie”, scrive il Farinacci, (non possum nisi vehementer excandescere) “contro que’ giudici che tengono per lungo tempo legato il reo, prima di sottoporlo alla tortura; e con quella preparazione la rendon più crudele.(18) ”
Da queste testimonianze, e da quello che sappiamo essere stata la tortura negli ultimi suoi tempi, si può francamente dedurre che i criminalisti interpreti la lasciarono molto, ma molto, men barbara di quello che l’avevan trovata. E certo sarebbe assurdo l’attribuire a una sola causa una tal diminuzione di male; ma, tra le molte, mi par che sarebbe anche cosa poco ragionevole il non contare il biasimo e le ammonizioni ripetute e rinnovate pubblicamente, di secolo in secolo, da quelli ai quali pure s’attribuisce un’autorità di fatto sulla pratica de’ tribunali.
Cita poi il Verri alcune loro proposizioni; le quali non basterebbero per fondarci sopra un generale giudizio storico, quand’anche fossero tutte esattamente citate. Eccone, per esempio, una importantissima, che non lo è: “Il Claro asserisce che basta vi siano alcuni indizii contro un uomo, e si può metterlo alla tortura(19)”.
Se quel dottore avesse parlato così, sarebbe piuttosto una singolarità che un argomento; tanto una tal dottrina è opposta a quella d’una moltitudine d’altri dottori. Non dico di tutti, per non affermar troppo più di quello che so; benché, dicendolo, non temerei d’affermar più di quello che è. Ma in realtà il Claro disse, anche lui, il contrario; e il Verri fu probabilmente indotto in errore dall’incuria d’un tipografo, il quale stampò: Nam sufficit adesse aliqua indicia contra reum ad hoc ut torqueri possit(20) , in vece di Non sufficit, come trovo in due edizioni anteriori(21) . E per accertarsi dell’errore, non è neppur necessario questo confronto, giacché il testo continua così: “se tali indizi non sono anche legittimamente provati”; frase che farebbe ai cozzi con l’antecedente, se questa avesse un senso affermativo. E soggiunge subito: “ho detto che non basta (dixi quoque non sufficere) che ci siano indizi, e che siano legittimamente provati, se non sono anche sufficienti alla tortura. Ed è una cosa che i giudici timorati di Dio devono aver sempre davanti agli occhi, per non sottoporre ingiustamente alcuno alla tortura: cosa del resto che li sottopone essi medesimi a un giudizio di revisione. E racconta l’Afflitto d’aver risposto al re Federigo, che nemmen lui, con l’autorità regia, poteva comandare a un giudice di mettere alla tortura un uomo, contro il quale non ci fossero indizi sufficienti”.
Così il Claro; e basterebbe questo per esser come certi, che dovette intender tutt’altro che di rendere assoluto l’arbitrio con quell’altra proposizione che il Verri traduce così: “in materia di tortura e d’indizi, non potendosi prescrivere una norma certa, tutto si rimette all’arbitrio del giudice(22) “. La contradizione sarebbe troppo strana; e lo sarebbe di più, se è possibile, con quello che l’autor medesimo dice altrove: “benché il giudice abbia l’arbitrio, deve però stare al diritto comune… e badino bene gli ufiziali della giustizia, di non andar avanti tanto allegramente (ne nimis animose procedant), con questo pretesto dell’arbitrio(23)”.
Cosa intese dunque, con quelle parole: remittitur arbitrio judicis che il Verri traduce: “tutto si rimette all’arbitrio del giudice”?
Intese… Ma che dico? e perché cercare in questo un’opinion particolare del Claro? Quella proposizione, egli non faceva altro che ripeterla, giacché era, per dir così, proverbiale tra gl’interpreti; e già due secoli prima, Bartolo la ripeteva anche lui, come sentenza comune: Doctores communiter dicunt quod in hoc (quali siano gl’indizi sufficienti alla tortura) non potest dari certa doctrina, sed relinquitur arbitrio judicis(24) . E con questo non intendevan già di proporre un principio, di stabilire una teoria, ma d’enunciar semplicemente un fatto; cioè che la legge, non avendo determinato gl’indizi, gli aveva per ciò stesso lasciati all’arbitrio del giudice. Guido da Suzara, anteriore a Bartolo d’un secolo circa, dopo aver detto o ripetuto anche lui, che gl’indizi son rimessi all’arbitrio del giudice, soggiunge: “come, in generale, tutto ciò che non è determinato dalla legge(25) “. E per citarne qualcheduno de’ meno antichi, Paride dal Pozzo, ripetendo quella comune sentenza, la commenta così: “a ciò che non è determinato dalla legge, né dalla consuetudine, deve supplire la religion del giudice; e perciò la legge sugl’indizi mette un gran carico sulla sua coscienza(26)i “. E il Bossi, criminalista del secolo XVI, e senator di Milano: “Arbitrio non vuol dir altro (in hoc consistit) se non che il giudice non ha una regola certa dalla legge, la quale dice soltanto non doversi cominciar dai tormenti, ma da argomenti verisimili e probabili. Tocca dunque al giudice a esaminare se un indizio sia verisimile e probabile(27) “.
Ciò ch’essi chiamavano arbitrio, era in somma la cosa stessa che, per iscansar quel vocabolo equivoco e di tristo suono, fu poi chiamata poter discrezionale: cosa pericolosa, ma inevitabile nell’applicazion delle leggi, e buone e cattive; e che i savi legislatori cercano, non di togliere, che sarebbe una chimera, ma di limitare ad alcune determinate e meno essenziali circostanze, e di restringere anche in quelle più che possono.
E tale, oso dire, fu anche l’intento primitivo, e il progressivo lavoro degl’interpreti, segnatamente riguardo alla tortura, sulla quale il potere lasciato dalla legge al giudice era spaventosamente largo. Già Bartolo, dopo le parole che abbiam citate sopra, soggiunge: “ma io darò le regole che potrò”. Altri ne avevan date prima di lui; e i suoi successori ne diedero di mano in mano molte più, chi proponendone qualcheduna del suo, chi ripetendo e approvando le proposte da altri; senza lasciar però di ripeter la formola ch’esprimeva il fatto della legge, della quale non erano, alla fine, che interpreti.
Ma con l’andar del tempo, e con l’avanzar del lavoro, vollero modificare anche il linguaggio; e n’abbiam l’attestato dal Farinacci, posteriore ai citati qui, anteriore però all’epoca del nostro processo, e allora autorevolissimo. Dopo aver ripetuto, e confermato con un subisso d’autorità, il principio, che “l’arbitrio non si deve intender libero e assoluto, ma legato dal diritto e dall’equità”; dopo averne cavate, e confermate con altre autorità, le conseguenze, che “il giudice deve inclinare alla parte più mite, e regolar l’arbitrio con la disposizion generale delle leggi, e con la dottrina de’ dottori approvati, e che non può formare indizi a suo capriccio”; dopo aver trattato, più estesamente, credo, e più ordinatamente che nessuno avesse ancor fatto, di tali indizi, conclude: “puoi dunque vedere che la massima comune de’ dottori – gl’indizi alla tortura sono arbitrari al giudice – è talmente, e anche concordemente ristretta da’ dottori medesimi, che non a torto molti giurisperiti dicono doversi anzi stabilir la regola contraria, cioè che gl’indizi non sono arbitrari al giudice(28) “. E cita questa sentenza di Francesco Casoni: “è error comune de’ giudici il credere che la tortura sia arbitraria; come se la natura avesse creati i corpi de’ rei perché essi potessero straziarli a loro capriccio(29) “.
Si vede qui un momento notabile della scienza, che, misurando il suo lavoro, n’esige il frutto; e dichiarandosi, non aperta riformatrice (ché non lo pretendeva, né le sarebbe stato ammesso), ma efficace ausiliaria della legge, consacrando la propria autorità con quella d’una legge superiore ed eterna, intima ai giudici di seguir le regole che ha trovate, per risparmiar degli strazi a chi poteva essere innocente, e a loro delle turpi iniquità. Triste correzioni d’una cosa che, per essenza, non poteva ricevere una buona forma; ma tutt’altro che argomenti atti a provar la tesi del Verri: “né gli orrori della tortura si contengono unicamente nello spasimo che si fa patire… ma orrori ancora vi spargono i dottori sulle circostanze di amministrarla(30) “.
Ci si permetta in ultimo qualche osservazione sopra un altro luogo da lui citato; ché l’esaminarli tutti sarebbe troppo in questo luogo, e non abbastanza certamente per la questione. “Basti un solo orrore per tutti; e questo viene riferito dal celebre Claro milanese, che è il sommo maestro di questa pratica: – Un giudice può, avendo in carcere una donna sospetta di delitto, farsela venire nella sua stanza secretamente, ivi accarezzarla, fingere di amarla, prometterle la libertà affine d’indurla ad accusarsi del delitto, e che con un tal mezzo un certo reggente indusse una giovine ad aggravarsi d’un omicidio, e la condusse a perdere la testa. – Acciocché non si sospetti che quest’orrore contro la religione, la virtù e tutti i più sacri principii dell’uomo sia esagerato, ecco cosa dice il Claro: Paris dicit quod judex potest, etc.(31) “.
Orrore davvero; ma per veder che importanza possa avere in una question di questa sorte, s’osservi che, enunciando quell’opinione, Paride dal Pozzo(32) non proponeva già un suo ritrovato; raccontava, e pur troppo con approvazione, un fatto d’un giudice, cioè uno de’ mille fatti che produceva l’arbitrio senza suggerimento di dottori; s’osservi che il Baiardi, il quale riferisce quell’opinione, nelle sue aggiunte al Claro (non il Claro medesimo), lo fa per detestarla anche lui, e per qualificare il fatto di finzione diabolica(33) ; s’osservi che non cita alcun altro il quale sostenesse un’opinion tale, dal tempo di Paride dal Pozzo al suo, cioè per lo spazio d’un secolo. E andando avanti, sarebbe più strano che ce ne fosse stato alcuno. E quel Paride dal Pozzo medesimo, Dio ci liberi di chiamarlo, col Giannone, eccellente giureconsulto(34) ; ma l’altre sue parole che abbiam riferite sopra, basterebbero a far veder che queste bruttissime non bastano a dare una giusta idea nemmen delle dottrine di questo solo.
Non abbiam certamente la strana pretensione d’aver dimostrato che quelle degl’interpreti, prese nel loro complesso, non servirono, né furon rivolte a peggiorare. Questione interessantissima, giacché si tratta di giudicar l’effetto e l’intento del lavoro intellettuale di più secoli, in una materia così importante, anzi così necessaria all’umanità; questione del nostro tempo, giacché, come abbiamo accennato, e del resto ognun sa, il momento in cui si lavora a rovesciare un sistema, non è il più adattato a farne imparzialmente la storia; ma questione da risolversi, o piuttosto storia da farsi, con altro che con pochi e sconnessi cenni. Questi bastan però, se non m’inganno, a dimostrar precipitata la soluzione contraria; come erano, in certo modo, una preparazion necessaria al nostro racconto. Ché in esso noi avremo spesso a rammaricarci che l’autorità di quegli uomini non sia stata efficace davvero; e siam certi che il lettore dovrà dir con noi: fossero stati ubbiditi!