La compassione di Obama verso Haiti e i tagli al budget della Difesa Usa
18 Gennaio 2010
C’è posto per la compassione nel discorso pronunciato da Obama dopo il terremoto che ha colpito Haiti. L’America sta compiendo grandi sforzi per alleviare le sofferenze e la paura della popolazione colpita da questa tragedia e con le sue parole il presidente ha cercato nuovamente di raggiungere una sintesi fra il suo messianismo universalistico – la speranza che gli Usa riescano ad agire in concerto con le Nazioni Unite e i Paesi alleati – e l’eredità del conservatorismo misericordioso di George W. Bush, che ieri è stato chiamato alla Casa Bianca per gestire la grande e costosa macchina dei soccorsi americani, insieme a Bill Clinton.
Obama ha messo l’accento sui valori e la forza degli Usa che vengono fuori proprio nei momenti di massima crisi, davanti al dolore e alla morte che attanagliano l’umanità. Gli Stati Uniti, dice il presidente, in passato hanno combattuto e vinto contro i loro nemici anche perché si sono dimostrati capaci di prendersi cura dei popoli che avevano sconfitto, come avvenne a Berlino nel dopoguerra o com’è accaduto in Bosnia e nel Kosovo negli anni Novanta. “Questo è quello che siamo. Questo è quello che sappiamo fare”, prendersi cura dei deboli, compatire e salvare gli afflitti, perché “guardiamo negli occhi degli altri e rivediamo noi stessi”, ed è questo lo spirito che permetterà agli Usa di continuare ad essere la nazione leader nel mondo libero.
Obama riesce ad essere convincente anche là dove si era fermato Bush. Se quest’ultimo verrà ricordato come il presidente delle guerre e degli eserciti, Obama con il disastro di Haiti è riuscito a dare un risvolto pacifico alle forze armate americane, rendendole un elemento di stabilizzazione e sicurezza per la comunità internazionale. Portaerei, navi-ospedale, elicotteri e aerei, team specialistici, soldati, marinai, piloti, guardia costiera, la mobilitazione verso l’isola sembra non conoscere limiti e sarà progressiva oltre che duratura. Come disse l’ammiraglio Mike Mullen dopo lo Tsunami del 2004: “Siamo letteralmente riusciti a costruire una città sul mare per nessun altro scopo se non quello di servire ai bisogni della popolazione”. Lo tsunami contro Indonesia e Thailandia, il terremoto in Pakistan, il ciclone in Banghladesh, l’uragano Katrina, negli ultimi dieci anni l’America è stata chiamata spesso a svolgere questo ruolo di protettore del mondo di fronte agli sconquassi provocati dalla Natura.
Haiti è un luogo preso di mira dal fato più ingrato. Il Paese più povero dell’emisfero occidentale che ha conosciuto rivolgimenti naturali altrettanto catastrofici nel 2002, 2004, 2005, 2008. E’ uno stato fallito dove quasi si rimpiangono i satrapi del passato prossimo (il presidente Aristide in esilio in Sudafrica) e remoto (“Papa Doc” Duvalier), visto che attualmente i sopravvissuti delle Nazioni Unite deve arginare le gangs armate di machete che imperversano sull’isola. Il terremoto ha fatto crollare le carceri e ci sarebbero almeno un migliaio di detenuti che vagano tra le macerie di Port Au Prince per cancellare ogni documento sopravvissuto al sisma che possa testimoniare la loro colpevolezza.
Eppure la diaspora haitiana è fatta di gente che è andata a cercare lavoro e una vita migliore all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, e li ha trovati. Nel 2000, circa il 60 per cento degli haitiani di New York svolgevano una professione qualificata e il 33 per cento dei dottori neri della Grande Mela provenivano dall’isola. La povertà, l’analfabetismo, la violenza, non sono quindi un marchio nel dna di questo popolo ma la conseguenza di decenni di dispotismo che hanno distrutto la vita democratica del Paese. “Un terremoto della stessa intensità di quello che ha colpito Haiti si è verificato a Northridge, in California, nel 1994, e ha provocato solo 72 morti”, ha commentato polemicamente Mona Charen sulla National Review. La catastrofe dei giorni scorsi mostra come e quanto, anche nell’affrontare i disastri naturali, contino il ruolo della legge, il libero mercato, istituzioni democratiche.
Obama però non è Dio e l’America non è un supereroe in grado di rovesciare, da sola, il corso degli eventi, tanto più che la “missione” indicata dal presidente avrà un costo molto alto in termini di impegno militare. Sul Weekly Standard, Thomas Donnelly e William Kristol hanno scritto di sostenere l’azione di Obama “senza riserve”, ricordando però che la politica della Difesa condotta negli Stati Uniti negli ultimi due decenni va nella direzione opposta: le teorie sullo smart e il soft power hanno portato a una riduzione generalizzata del numero di truppe, e ad Haiti dovrebbero arrivare fino a 10.000 militari proprio nel momento in cui il surge in Afghanistan reclama la massima attenzione. La compassione predicata da Obama, insomma, si scontra con i tagli al budget della Difesa del 2010, e il declino delle capacità militari degli Usa.