La Corea del Nord frena sul disarmo nucleare e resta nell’Asse del Male
27 Agosto 2008
Con il suo consueto gusto per il sensazionale, il regime della Corea del Nord ha dichiarato ieri di aver sospeso i lavori per la disattivazione dell’impianto nucleare di Yongbyong, passaggio chiave previsto dall’Accordo di Pechino del febbraio 2007, che Usa, Cina, Giappone, Russia e le due Coree hanno stipulato nel quadro dei ‘Colloqui a sei’, il framework diplomatico chiamato a risolvere dal 2003 la crisi sul disarmo nucleare nord-coreano. In base a tale intesa, e nel rispetto del principio ‘action for action’, il regime di Kim Jong-il si è impegnato a smantellare tutte le sue installazioni nucleari sensibili (capaci di processare il plutonio o arricchire l’uranio per scopi militari) e ad abbandonare completamente il suo programma nucleare, procedendo prima allo spegnimento del reattore di Yongbyong e poi alla sua disattivazione. In cambio, Pyongyang ha ricevuto – e riceverà ancora in futuro – aiuti energetici, alimentari e aperture diplomatiche.
A quanto riferito dalla Kcna (l’organo di stampa ufficiale del regime), che cita una fonte del ministero degli Esteri, le autorità nord-coreane minacciano di ripristinare l’impianto in questione e accusano gli Stati Uniti di non aver onorato gli impegni assunti il 26 giugno scorso, dopo aver ricevuto copia di una dichiarazione contenente i dettagli del programma nucleare di Pyongyang. All’indomani della presentazione del documento, infatti, George W. Bush acconsentì ad avviare il processo per cancellare la Corea del Nord dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo del dipartimento di Stato e per rimuovere le restrizioni commerciali imposte dal Trading with Enemy Act. Ai primi di agosto, trascorsi 45 giorni dalla comunicazione al Congresso dell’avvio dell’iter di eliminazione (termine stabilito per legge), la Casa Bianca ha deciso di rimandare il tutto.
La posizione della Corea del Nord pare a dire il vero del tutto strumentale. Una volta entrati in possesso del documento nord-coreano, gli Usa si sono accordati con gli altri Paesi implicati nei negoziati per sottoporlo a un rigido protocollo di verifica, nel rispetto degli standard internazionali in materia. Il regime di Kim si è ben guardato dall’accettare, non garantendo agli ispettori americani e a quelli dell’Aiea libero accesso a tutte le sue centrali nucleari. Il timore che la Corea del Nord abbia mentito nell’illustrare i suoi segreti atomici è forte tra gli attori in gioco, in considerazione anche del fatto che le informazioni finora presentate fanno riferimento solo al programma basato sul plutonio, nulla è detto su un eventuale arricchimento dell’uranio e sulla proliferazione (due aspetti che in base agli accordi dovranno essere affrontati in un momento successivo). In particolare, a Washington non tornano i conti sulla quantità di plutonio processato: i nord-coreani la stimano in 36 kg, mentre secondo i calcoli degli esperti americani si aggirerebbe intorno ai 50 kg.
Pyongyang si è scagliata contro questa impostazione. Per aprire totalmente i propri siti agli ispettori internazionali, i coreani del nord – con una punta di provocazione – chiedono reciprocità, e dunque la possibilità di ispezionare gli arsenali della Corea del Sud, in modo da verificare che non ospitino armi nucleari americane. Una posizione apparentemente rigida, che si inserisce in quadro più ampio di tensione con Seoul, amplificato dalle annuali esercitazioni militari congiunte, che Stati Uniti e Corea del Sud hanno compiuto recentemente e alle quali, per la prima volta, ha assistito anche il presidente sud-coreano Lee Myung-bak.
Per la maggior parte degli osservatori, però, la brusca virata della Corea del Nord si spiega con la sua malcelata volontà di concludere un accordo di pace separato con gli Usa prima di abbandonare il proprio programma nucleare. Pyongyang concepisce il nucleare come uno strumento della sua politica di sicurezza, una carta negoziale da giocarsi nel delicato risiko geopolitico del Pacifico settentrionale. Le dichiarazioni di martedì rientrerebbero nelle sperimentate tattiche di brinkmanship di Kim Jong-il, attraverso le quali il leader veterocomunista nord-coreano alza solitamente la posta in gioco per ottenere dei vantaggi: in questo caso accelerare la rimozione del proprio Paese dall’elenco Usa degli ‘Stati canaglia’.
Ma lo spazio di manovra della Corea del Nord si è ridotto notevolmente negli ultimi mesi. La Cina non sembra più intenzionata a proteggerla incondizionatamente. La visita di lunedì scorso a Seoul del presidente cinese Hu Jintao è un chiaro monito a Pyongyang. Nell’occasione, Hu e Lee hanno firmato un documento comune in cui affermano la volontà di approfondire la cooperazione reciproca per porre fine al programma nucleare nord-coreano. Da diverso tempo, inoltre, Pechino spinge perché Kim riformi il sistema economico nord-coreano sul modello cinese, garantendo una maggiore apertura al commercio estero. Un suggerimento che non entusiasma ‘L’amato leader’ nord-coreano, timoroso che una eccessiva apertura economica possa favorire il crollo del suo regime.
La Corea del Nord non avrebbe comunque alcun interesse ad abbandonare il processo di disarmo nucleare: rinuncerebbe all’unica arma di pressione che le è rimasta per sperare di sopravvivere. Non si spiegherebbe altrimenti il recente accordo che ha siglato con il Giappone – in cambio di aiuti e aperture commerciali – per aprire una nuova inchiesta sullo spinoso caso dei cittadini giapponesi rapiti da Pyongyang tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. I recenti accadimenti nel Caucaso, poi, scatenando i tradizionali timori nord-coreani verso l’espansionismo della Russia, dovrebbero spingere Kim a trovare un accomodamento con gli Usa, considerati dall’establishment di potere nord-coreano meno minacciosi dell’orso russo.
Dopo una lunga serie di disfatte, la mancata rimozione della Corea del Nord dall’elenco americano dei Paesi ispiratori del terrore segna – almeno per il momento – un punto a favore dei falchi dell’amministrazione Bush e del Partito repubblicano. John Bolton, il 30 giugno scorso, aveva fortemente criticato dalle colonne del Wall Street Journal la politica dialogante del segretario di Stato Usa Condoleezza Rice nei confronti della Corea del Nord. Secondo l’ex ambasciatore degli Stati Uniti all’Onu, cancellare Pyongyang dalla lista degli Stati terroristi in cambio di una serie di informazioni difficilmente verificabili sul proprio stato nucleare è stata una manifestazione di debolezza. Sarebbe però azzardato ricondurre gli ultimi accadimenti alle pressioni del duo Bolton-Cheney e al recupero della loro diplomazia muscolare: la Casa Bianca e Ms Rice hanno chiarito sin dal primo momento che non ci sarà alcun principio ‘action for action’ se i nord-coreani non si attiveranno per garantire un esaustivo riscontro delle informazioni sul loro programma nucleare.