La corsa alle armi dell’Asia farà crescere i rapporti tra Usa e Australia
14 Aprile 2012
Nei prossimi vent’anni l’Australia, con una popolazione che è meno della metà di quella italiana, spenderà 290 miliardi di dollari nell’acquisizione di moderni materiali bellici come aerei e sottomarini. Una somma dieci volte superiore a quella che verosimilmente spenderà l’Italia, il cui magro bilancio della difesa è assorbito per oltre due terzi dalle spese per il personale. Semplice militarismo, quello australiano? No, piuttosto una scelta obbligata per un paese che ha deciso di svolgere il ruolo di braccio destro degli Usa nelle operazioni di polizia internazionale ricoprendo il posto numero due nell’ambito della cosiddetta “anglosfera” sostituendosi così al Regno Unito, il cui bilancio della difesa dimagrisce sempre più. E soprattutto scelta obbligata per un paese che si trova alla confluenza di due oceani geopoliticamente turbolenti come l’Indiano e il Pacifico. Ironicamente, l’uno fa poco l’indiano e l’altro è per nulla pacifico.
Attraverso l’Oceano Indiano transita gran parte del petrolio greggio estratto nella penisola arabica e nel Golfo Persico, da dove si dirige verso i mercati dell’Occidente (attraverso il Mar Rosso e il Canale di Suez) e dell’Oriente attraverso lo Stretto di Malacca e il Mar Cinese Meridionale. Quest’ultimo mare è rivendicato praticamente per intero dalla Cina, che sbandiera il concetto della “sovranità indisputabile” su uno specchio di mare su cui si affacciano altri soggetti statali come Vietnam, Malesia, Brunei e Filippine. Questa bizzarra interpretazione cinese della carta geografica non tiene conto dell’esistenza degli altri quattro paesi e si concretizza nella “linea dei nove punti”, che giacciono curiosamente presso le coste degli altri paesi rivieraschi (sarebbe come se la Francia contendesse alla Grecia il possesso di Cefalonia) e che racchiudono un’area marina chiamata la “lingua di vacca” per la sua forma particolare. Nel Mar Cinese Meridionale si verificano quotidiani scontri fra navi cinesi e imbarcazioni giapponesi, vietnamite, sud-coreane e filippine. Sullo sfondo di tutto ciò agisce in modo sornione la Russia, che fornisce materiale militare ad alta tecnologia alla Cina, ma non disdegna di fornire il medesimo materiale ai rivali Vietnam e India.
Per quanto attiene ai bilanci militari il 2012, secondo l’IISS, L’International Institute of Strategic Studies di Londra, sarà l’anno del sorpasso dell’Asia nei confronti dell’Europa. L’India, che è diventata il primo importatore mondiale di armi, ha annunciato un aumento del 17% del proprio bilancio della difesa per quest’anno e la sua marina si sta dotando di sei nuovi sottomarini del valore di 11 miliardi di dollari. La Corea del Nord continua a preoccupare i vicini fin dal 1998 quando lanciò sopra il Giappone un missile balistico intermedio tipo Taepodong-1. Successivamente il regime di Pyongyang lanciò ad aprile 2009 il veicolo spaziale Unha-2, fece un esperimento nucleare a maggio e altri due test missilistici a luglio. Nel 2010, poi, ammise di stare lavorando ad un missile balistico intermedio a rampa mobile, il BM-25 Musudan, copiato dall’ex sovietico R-27 Zyb. Tutti questi episodi hanno costretto il Giappone a migliorare le proprie capacità di difesa missilistica che attualmente si basano su quattro incrociatori classe Kongo armati di missili SM3 e su svariate batterie mobili di PAC3 a difesa dei principali centri urbani (inizialmente solo Tokyo, Osaka e Fukuoka, oggi anche molti altri centri, nell’ottica di raggiungere entro il 2017 la copertura dell’intero territorio nazionale). Ora Tokyo sta progettando di mettere in orbita entro il 2015 un sistema spaziale di allerta precoce. Il Sol Levante ha anche annunciato la sostituzione degli aerei da caccia F-4 e F-15, lo farà acquistando per 7 o 8 miliardi di dollari una quarantina di caccia americani F-35 Joint Strike Fighter. Lo stesso tipo di aereo verrà acquistato anche da altri paesi dell’area: la Corea del Sud prevede di acquistarne da 40 a 60, Taiwan ben 210, di cui 60 a decollo verticale, Singapore una dozzina e l’Australia alcune decine.
I paesi dell’area stanno rinforzando anche le rispettive forze navali. Il Vietnam nel 2009 ha acquistato per 3 miliardi di dollari sei sottomarini d’attacco russi classe Kilo di previsto arrivo nel 2014 ed ha appena varato la prima corvetta lanciamissili antinave fabbricata in casa. Alla fine del 2011 un contratto con l’Olanda ha assicurato al Vietnam la costruzione di quattro corvette classe Sigma ed anche la Polizia navale vietnamita si sta potenziando con l’acquisizione di numerosi pattugliatori portaelicotteri. Il Vietnam, che dispone di poderose difese costiere grazie a sistemi missilistici da crociera forniti da Russia e India, ha un vantaggio strategico in un eventuale conflitto marittimo con la Cina, dal momento che “gioca in casa” ed occupa le più numerose ed estese fra le contese Isole Spratly, mentre la Cina controlla pochi fortini dislocati su isolotti minori.
Mentre tutti i paesi occidentali riducono i bilanci della difesa, il bilancio cinese continua da oltre un decennio ad aumentare del 12% all’anno. Oggi l’esercito di liberazione cinese è il più numeroso al mondo, con i suoi 2.300.000 soldati. Fra vent’anni la Cina supererà gli Usa e sarà il paese con la più alta spesa militare al mondo. Il suo sforzo è principalmente mirato a tenere gli Usa al di fuori di una eventuale crisi che coinvolga Taiwan. Nel 1996 l’America inviò due gruppi portaerei nello Stretto di Taiwan come risposta ai lanci di missili balistici cinesi sopra lo spazio aereo dell’isola. A questo scopo la Cina intende rendere le proprie forze armate in grado di colpire le basi americane nel Pacifico occidentale e di mantenere i gruppi portaerei statunitensi al di fuori di quella che Pechino chiama la “prima catena insulare” (l’allineamento di isole che parte a Nord dalle Isole Aleutine e arriva fino al Borneo a Sud attraverso le Isole Kurili, l’arcipelago giapponese, Taiwan e le Filippine). La Cina sta per varare la sua prima portaerei, un riammodernamento della portaerei ex sovietica Varyag (acquisita dall’Ucraina nel 1998) che ha già concluso le sue prove nel Pacifico e che verrà verosimilmente schierata proprio nel conteso Mar Cinese meridionale. Al tempo stesso i Cinesi stanno costruendo due nuovi tipi di velivoli da imbarcare sulla portaerei, il J-15 “Squalo volante” e il J-18 “Aquila rossa”.
Ciò che più allarma i paesi dell’area sono l’assertività e la scarsa trasparenza dei Cinesi. L’assertività muscolare è ben riflessa nella dottrina che stabilisce che “se qualcuno offende i nostri interessi nazionali, significa che ha già sparato il primo colpo”, lasciando intendere che a quel punto la reazione di Pechino è garantita. La mancanza di trasparenza, invece, sta nel fatto che non è ben chiaro chi realmente comandi le forze armate. In base al peculiarissimo sistema cinese, infatti, l’esercito di liberazione nazionale non è formalmente parte dell’apparato statale in quanto non risponde al ministero della Difesa ma è responsabile nei confronti del partito comunista, che lo comanda attraverso la Commissione Militare Centrale.
Dopo la caduta del Muro di Berlino sembrava che gli Usa dovessero rivolgere lo sguardo non più all’Europa ma al Pacifico. Lo avrebbero fatto volentieri se non fossero stati distolti da una serie di crisi nell’area mediterranea e del Vicino e Medio Oriente: nel 1991 in Iraq per liberare il Kuwait, nel 1995 in Bosnia dove iniziò un diuturno impegno balcanico, nel 1999 contro la Serbia per liberare il Kosovo, nel 2001 in Afghanistan a seguito dell’11 settembre, nel 2003 nuovamente contro l’Iraq di Saddam e nel 2011 contro la Libia di Gheddafi. Ora che l’impegno balcanico è terminato e quelli in Iraq e Afghanistan volgono al termine, Washington sta effettivamente orientandosi verso il Pacifico. A fine 2011 Obama ha annunciato lo schieramento di 2.500 marines nella base di Darwin sulla costa settentrionale australiana e lo schieramento di alcune LCS (Littoral Combat Ships) nel Mar Cinese Meridionale. Singapore ha accettato di ospitare navi da guerra statunitensi. A febbraio sono iniziate le trattative fra Washington e Manila sull’aumento della presenza militare americana nelle Filippine. Pochi giorni prima, a gennaio, Casa Bianca e Pentagono avevano emanato una nuova direttiva strategica in cui il presidente Obama e il segretario alla difesa Panetta annunciavano una sorta di ritorno al 1989: “Mentre l’apparato militare statunitense continuerà a contribuire alla sicurezza globale, sposteremo necessariamente la nostra gravitazione verso l’Asia e il Pacifico”, guarda caso l’area più dinamica al mondo in termini economici, che era stata trascurata dagli Americani a causa delle guerre in Iraq e Afghanistan.
In conclusione, si arriverà mai ad un conflitto fra Cina e Usa nel Mar Cinese Meridionale o nel Pacifico? Ben difficilmente. I due paesi sono inestricabilmente legati dal punto di vista economico-commerciale e nessuno dei due ha interesse ad arrivare allo scontro diretto, tanto meno la Cina le cui forze armate non hanno valide esperienze di combattimento da opporre a quelle degli allenatissimi Americani. E poi quest’ultimi, che oltre all’enorme base di Guam dispongono di 108 siti in Giappone e 82 in Corea del Sud, non partono certo svantaggiati. Anche perché si apprestano a recuperare a brevissima scadenza forze dall’Europa ed -entro il 2014- anche dall’Iraq e dall’Afghanistan. Ma anche senza arrivare allo scontro diretto fra i due colossi, qualche crisi limitata nel tempo e nello spazio, magari per interposta persona, è tutt’altro che da escludere. Dopotutto, il concetto di “small scale wars” da un anno è in auge in Cina e all’inizio di marzo 2012 il premier Wen Jiabao ha dichiarato che “l’esercito cinese deve essere preparato a sostenere guerre locali”.