La Corte di  Giustizia ha premiato Europa7 ma il digitale cambia tutto

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La Corte di Giustizia ha premiato Europa7 ma il digitale cambia tutto

06 Febbraio 2008

La recente sentenza della Corte di Giustizia in merito
alla gestione delle frequenze televisive in Italia è una tappa significativa di
una storia ormai molto lunga e complicata, ma soprattutto pone rilevanti
questioni sull’architettura normativa del nostro sistema broadcasting e sulle
condizioni che dovranno regolare i prossimi passi della transizione digitale.

 

La vicenda che ha originato la
pronuncia della Corte prende il via nel marzo 1999 (Governo D’Alema) quando il
decreto ministeriale n. 65 approva il disciplinare che regola la gara per
l’assegnazione delle concessioni televisive in ambito nazionale (possono
arrivare fino a un massimo di otto e durano sei anni). Il disciplinare contiene
un elemento di novità importante rispetto all’unico rilascio di concessioni
effettuato in precedenza (1992): fa riferimento (art. 5 comma 1) al piano
nazionale di assegnazione delle frequenze in tecnica analogica, approvato nel
novembre 1998 dalla neonata Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (il
solo piano mai formalizzato nella storia della televisione italiana), che è
richiamato sia come base per il calcolo del numero di reti nazionali
realizzabili sia come repertorio delle “frequenze di funzionamento” degli
impianti di trasmissione che “vengono indicate” poi “nel provvedimento di
concessione” (art. 5 comma 2).

 

E’ importante rimarcare il nesso
formale che il decreto 65 istituisce fra titolo concessorio e specificazione
delle frequenze mediante le quali il concessionario svolge la sua attività
poiché stabilisce una cesura, una divergenza radicale con lo stato di fatto
della televisione quale si è delineata nel corso di un quarto di secolo: dal
1975 le frequenze in Italia sono operate e scambiate dalle emittenti senza
interventi dello Stato, al di fuori non tanto di un qualche piano ma di ogni
vincolo o criterio pubblico: il sistema televisivo si è autorganizzato, ha
trovato da sé forme di coordinamento e cooperazione, ha messo in piedi un
mercato informale delle risorse tecniche. Il decreto 65 instaura così un’opposizione
polare con la realtà esistente, con la prassi quotidiana degli operatori. Il
problema invece era presente all’Autorità delle comunicazioni (Agcom): nel
Regolamento – approvato il 1° dicembre 1998 – per il rilascio delle
concessioni, che definisce il quadro giuridico in cui si colloca il
disciplinare di gara del marzo 1999, essa infatti stabilisce una tappa
intermedia, una fase di transizione tra la realtà presente e la realtà
immaginata per il futuro prevedendo (art. 16 comma 2) che i concessionari,
“nelle more della completa attuazione del piano, possono proseguire
nell’esercizio dell’attività radiotelevisiva con gli impianti di diffusione” e
le relative frequenze già in uso.   

 Il disciplinare, redatto sotto la
guida del sottosegretario del Ministero delle Comunicazioni con delega alla
televisione Vincenzo Vita (sinistra Ds), contiene anche un altro elemento
esplosivo:  la griglia dei criteri per
assegnare i punteggi che ordinano in classifica le diverse imprese partecipanti
attribuisce grande peso ai fattori prospettici (promesse di investimento, piani
editoriali) e di converso limita i valori assegnati alle esperienze già
maturate e alla solidità patrimoniale.

 
La seconda tappa della vicenda
concessioni si compie nel luglio 1999 quando si concludono le procedure di gara
e il Ministero rilascia sette titoli: fra i vincitori compare, con una certa
sorpresa, una società (Centro Europa 7 srl) che non ha mai gestito un’emittente
televisiva. Poiché l’attuazione del piano è appena nelle fasi preliminari e il
complesso lavoro di trasloco dei concessionari dalle frequenze di uso storico
al sistema pianificato deve ancora cominciare, il Ministero decide, anche sulla
traccia di quanto indicato nel Regolamento Agcom del dicembre 1998, di
rilasciare i titoli concessori senza indicare le frequenze sulle quali
trasmettere. La scelta non incide sulla condizione dei sei concessionari che
già operano e quindi già utilizzano frequenze mentre crea un ovvio problema al
nuovo entrante: Centro Europa 7 non imbocca la via seguita da tutti gli
operatori televisivi italiani e rinuncia a procurarsi le frequenze necessarie
sul mercato dove sono ampiamente disponibili (basta pagare i prezzi che nel
tempo si sono formati); preferisce la strada del contenzioso legale e fa ricorso
al Tar chiedendo, a completamento del titolo concessorio, l’assegnazione delle
frequenze necessarie a trasmettere.

La terza tappa della vicenda si
produce il 23 gennaio 2001 quando il Governo Amato emana un decreto legge che
delinea le coordinate per l’avvio della sperimentazione delle trasmissioni
terrestri in tecnica digitale. Il punto centrale del percorso definito dal
decreto, convertito il 21 marzo nella legge 66, è la previsione di un piano
nazionale di assegnazione delle frequenze in tecnica digitale che l’Autorità
deve adottare entro il 31 dicembre 2002. Fino a tale data la legge (art.1 comma
1) consente alle emittenti in attività – nazionali e locali – che non hanno
ottenuto la concessione di “proseguire l’esercizio della radiodiffusione, con i
diritti e gli obblighi del concessionario”. Ciò rende impossibile applicare il
piano nazionale delle frequenze in tecnica analogica predisposto dall’Autorità:
è infatti riservato a non concessionari l’utilizzo di frequenze che sono
previste nel piano e che, in base al nesso tra titolo concessorio e piano
istituito con il decreto 65/99, sono pertinenti ai concessionari. Di fatto il
piano analogico è congelato: la situazione esistente di fatto è prolungata fino
alla fine del 2002 e, come osserva la stessa Autorità nella relazione che
accompagna il piano di assegnazione delle frequenze in tecnica digitale
approvato nel marzo 2002, è impensabile passare in pochi mesi prima dalla
configurazione analogica attuale alla configurazione analogica definita dal
piano e poi alla configurazione digitale. Consapevole di questi vincoli
pragmatici, la legge 66 conferma in modo esplicito – sempre con l’art. 1 comma
1 – che “i soggetti, non esercenti all’atto della domanda, che ottengono la
concessione possono acquisire impianti di diffusione e connessi collegamenti
legittimamente eserciti”.

 

Su questo sfondo giuridico, che
arresta l’attuazione del piano nazionale in tecnica analogica e quindi la
conseguente riallocazione delle frequenze entro i nuovi titoli concessori, il
Tar decide, nel settembre 2004, di rigettare il ricorso di Centro Europa 7.

 
Scatta a questo punto, con
l’impugnazione davanti al Consiglio di Stato della sentenza Tar, una nuova fase
che è caratterizzata da un mutamento della strategia giudiziaria di Centro Europa
7: il bersaglio non è più l’incompletezza del titolo concessorio determinata
dalla mancata attuazione del piano ma la sequenza delle norme che, dalla legge
Maccanico del 1997 (art. 3 comma 7)  fino
alla legge Gasparri del 2004, consente a reti non in possesso dei requisiti per
ottenere la concessione – Retequattro in primo luogo – di continuare a
trasmettere. L’argomento è basato su un evidente fallacia fisicalista: poiché –
si sostiene – lo spettro frequenziale è affollato di operatori e le risorse tecniche
sono quindi scarse, allora la presenza di emittenti in linea di principio non
legittimate toglie spazio a un concessionario dotato di tutti i titoli. La
fallacia dell’argomento si può facilmente dimostrare per due vie diverse ma
complementari. La prima via consiste nel considerare una semplice possibilità:
se Retequattro passasse a un diverso proprietario, non collocato in posizione
dominante nel sistema televisivo, avrebbe pieno titolo – essendo utilmente
collocata nella classifica dei partecipanti alla gara del 1999 – per svolgere
la sua attività e quindi non si formerebbe la provvista di frequenze necessaria
per dare completezza alla concessione rilasciata a Centro Europa 7. La seconda
via è quella indicata dalla legge 66 all’art. 1: il concessionario cui il suo
titolo non conferisce le frequenze necessarie per operare può acquistarle sul
mercato, come hanno fatto tutti gli altri operatori, ieri come oggi. Nonostante
la sua fallacia, l’argomento presenta un grande vantaggio: coinvolge una legge
del 2004 e quindi permette di sostenere il contrasto della normativa nazionale
con il nuovo quadro giuridico delle comunicazioni elettroniche stabilito in
sede Ue con le quattro direttive del luglio 2002.

 

Il Consiglio di Stato, di fronte
all’apparente groviglio delle norme, decide di interrogare la Corte di Giustizia e lo fa
nell’aprile 2005 presentando 10 quesiti che, nella ricostruzione dei fatti,
ricalcano su molti punti la memoria di Centro Europa 7. La sentenza della Corte
si ancora alle direttive del 2002 e fissa due significativi punti di principio.
Il primo stabilisce che uno Stato membro, quando attribuisce “diritti di uso
delle frequenze su base individuale al fine di rispettare l’obiettivo di un uso
efficiente delle stesse”, deve usare “criteri obiettivi, trasparenti, non
discriminatori e proporzionati” (paragrafi 102 e 103). Si tratta infatti di una
deroga ai principi generali del Trattato (art. 49) i quali, come indica l’art.5
comma 1 della direttiva Autorizzazioni, indicano agli Stati membri di astenersi
dal “subordinare l’uso delle frequenze radio alla concessione di diritti d’uso
individuali”. Il secondo punto di principio richiamato dalla Corte riguarda il
sistema delle concessioni: in quanto “limita il numero degli operatori nel
territorio nazionale può essere giustificato da obiettivi di interesse
generale”, ma “le restrizioni che ne derivano” occorre “siano appropriate e non
vadano oltre quanto necessario” (paragrafo 100). Un titolare di concessione che
non ottiene gli elementi strumentali occorrenti per operare introduce un
elemento di contraddizione in quel sistema di limiti indirizzati a uno scopo
specifico che costituisce il nucleo essenziale del meccanismo concessorio.

 

Si tratta di principi coerenti e
del tutto giustificati. Sono applicati però a una rappresentazione impropria
del sistema televisivo italiano. In trent’anni di attività televisiva non è mai
accaduto allo Stato italiano di “concedere diritti individuali d’uso delle
frequenze radio” (direttiva autorizzazioni, art. 5 comma 2): nessun piano delle
frequenze in tecnica analogica è mai stato attuato e nessun Ministro ha mai
assegnato frequenze. Senza mai dichiararlo in via esplicita e anzi richiamando
spesso il proprio potere di assegnare le frequenze, lo Stato ha proceduto
secondo i principi generali richiamati nel comma 1 dell’art. 5 della stessa
direttiva. Non si tratta di un semplice tic stilistico quando la sentenza, al
paragrafo 109, afferma che “frequenze sono state assegnate di fatto”: in realtà
l’assegnazione è una procedura formale ed è incompatibile con un regime di
fatto; la strana locuzione usata dalla Corte appare il sintomo di una certa
difficoltà a far corrispondere lo schema concettuale utilizzato con i fatti
accertati.

 

Ora la decisione torna al
Consiglio di Stato: sono passati tre anni dal rinvio alla Corte di Giustizia,
il sistema televisivo ha vissuto una rapida evoluzione verso un completo
ambiente digitale, si è molto intensificata la competizione fra broadcaster che
diversificano sempre più le proprie fonti di entrata, la tecnologia analogica
sta ormai per esaurirsi e ciò consente di intendere meglio la traiettoria
dell’ultimo decennio. Vi sono almeno tre forti elementi di novità che si
presentano oggi alla valutazione del giudice ma anche del legislatore.

 

1. Un disegno di legge, presentato dal Governo all’avvio
della quindicesima legislatura e tendente ad allungare i tempi di transizione
al digitale (lo spegnimento degli impianti analogici era posticipato alla fine
del 2012 e operatori in tecnica analogica nuovi entranti avrebbero ottenuto
frequenze per il loro debutto alla fine del 2009), ha suscitato aspri dissensi
(anche nel centro-sinistra) e si è incagliato, dopo poche battute, alla Camera
dei deputati, l’unica ad averlo preso in esame.

 

2. Ad oggi vige ancora come data
finale per le trasmissioni analogiche il 31 dicembre 2008. Alcune zone del
Paese stanno per essere pienamente digitalizzate e altre lo saranno nei
prossimi mesi. Con un fattivo impulso da parte del Governo la transizione al
digitale può essere compiuta per il 90% della popolazione entro il 2009 o la
prima metà del 2010. Se l’ipotesi si realizza, le concessioni rilasciate nel
luglio 1999 avrebbero una durata di circa 11 anni (di cui 5 in regime di proroga). Il
piano di assegnazione delle frequenze è rimasto in vigore appena 18 mesi,
quelli intercorrenti fra il rilascio delle concessioni e l’emanazione del
decreto-legge 66 nel gennaio 2001, ma neppure in questo periodo ci sono state
operazioni volte alla sua attuazione. Nessun concessionario, nazionale o
locale, fra i circa 600 oggi attivi, ha mai ottenuto frequenze mediante
assegnazioni dal Ministero e il riconoscimento di un diritto specifico per
Centro Europa 7 creerebbe un’evidente condizione di disparità.

 

3. Dopo il 2004 la Commissione si è mossa
con decisione verso un approccio in materia di frequenze più orientato al
mercato: due Comunicazioni del 2005 ma soprattutto i documenti sottoposti a
consultazione pubblica il 28 e 29 giugno 2006 in vista di un atto
ufficiale promuovono l’idea di introdurre un mercato secondario delle
frequenze  che non differenzi fra usi
televisivi e usi nell’ambito delle telecomunicazioni. Sia pure in maniera
confusa, implicita e non regolata, l’Italia si è mossa con grande anticipo
lungo questa via: appare antistorico sanzionare ora le contraddizioni
(soprattutto fra enunciazione formale e realtà fattuale) che si sono mostrate
nel decorso di una tale scelta d’avanguardia. Tocca oggi al legislatore
sancirla e organizzarla:  occorre
stabilire un quadro di regole preciso per far funzionare in modo trasparente il
mercato secondario sviluppando l’intuizione contenuta nell’articolo 1 della
legge 66 e dando ordine a una prassi ormai trentennale; vanno consolidati gli
strumenti di coordinamento fra gli operatori (consorzi, associazioni) per
ottimizzare l’uso delle risorse tecniche anche in relazione agli impegni
internazionali; è necessario infine eliminare la corsia preferenziale nel
passaggio al digitale creata dal Regolamento 2001 dell’Agcom per favorire gli
investimenti degli operatori esistenti e censurata sia dalla Commissione sia
dalla Corte di Giustizia dopo il suo recepimento nella legge Gasparri:
l’istituzione di un mercato secondario delle frequenze con eventuali accessi
agevolati per i nuovi entranti appare come la cura migliore.

 

Gli scontri di interesse
provocati dalle modalità spontanee e anticipate con cui in Italia, alla metà
degli anni 70, è cessato il monopolio pubblico della televisione e si sono
imposte le emittenti commerciali avvelenano da troppo tempo la politica e il
dibattito intellettuale: ad essi risale anche una responsabilità non secondaria
nel prevalere già dal 1994 di una versione rancorosa e giudiziaria del
bipolarismo. Oggi sembrano radunate le condizioni politiche (il dialogo fra i
partiti maggiori) ed economiche (i vantaggi offerti dall’utilizzo generalizzato
della tecnologia digitale) per entrare in una nuova fase – più ricca e
socialmente efficace – del business televisivo, ormai trasformato dalla
integrazione con le telecomunicazioni. Le recriminazioni giudiziarie
sull’assetto della televisione analogica e le furbizie in merito a business mai
nati sembrano veramente i residui fossili di un’era remota. La sentenza della
Corte di Giustizia può trasformarsi in un utile incentivo per accelerare e
razionalizzare il passaggio a una compiuta comunicazione digitale e a una più
matura civiltà politica.