La crisi del Portogallo deve spingere l’Europa ad attuare nuove regole fiscali
24 Marzo 2011
Anche il Portogallo, dopo la Grecia, è sull’orlo del baratro. Il primo ministro socialista Socrates, infatti, ha rassegnato le dimissioni dopo la bocciatura, da parte del Parlamento portoghese, del piano di austerity proposto dal suo Governo. Quasi scontato, a questo punto, il ricorso del Portogallo al fondo europeo di salvataggio (Efsf), come già avvenuto in passato per la Grecia, e del Fondo Monetario Internazionale. Si parla di un piano complessivo da 60-80 miliardi di euro. E potrebbero non bastare.
I rendimenti promessi sui titoli di stato portoghesi hanno contestualmente raggiunto il massimo storico e l’euro è scivolato a quota 1,41 sul dollaro. Ma nei mercati finanziari si respira anche la quasi certezza che il Portogallo non sarà l’ultima vittima di questa crisi dei debiti sovrani, iniziata nel 2008 e ancora lontana dal suo esaurimento. La prossima candidata è la Spagna, che lo scorso 10 Marzo si è vista tagliare dall’agenzia Moody’s il proprio rating sul debito, passato da Aa1 ad Aa2. A questo punto, il socialista Zapatero rischia seriamente di fare la stessa fine del suo collega portoghese, ora che la bolla speculativa del settore immobiliare spagnolo è scoppiata, le entrate si sono ridotte e il tasso di disoccupazione viaggia a preoccupanti tassi a doppia cifra. Se consideriamo, inoltre, che gli speculatori hanno da tempo fatto capire come credano seriamente ad un default prossimo venturo del debito spagnolo, Zapatero non può davvero dormire sonni tranquilli.
L’esempio del Portogallo, così come quello della Grecia e dell’Irlanda, suggerisce una riflessione su quello che gli inglesi chiamano il rapporto tra economic failure (fallimento economico) e political failure (fallimento politico), riassumibile nei seguenti termini: i cittadini dimissionano i loro politici usando il potere di voto ogni volta che attribuiscono ad essi le responsabilità di un fallimento nelle scelte di politica economica. Nell’attuale crisi dei debiti sovrani i politici stanno quindi pagando le scelte passate di eccessivo indebitamento nel settore pubblico e dell’uso del deficit per creare sviluppo nel breve periodo. E’ la dimostrazione che nelle democrazie occidentali l’elettorato è molto meno sprovveduto e miope di quanto spesso alcuni politici vogliono far credere. E’ sicuramente facile per un politico adottare politiche di spesa al fine di guadagnarsi il consenso degli elettori ma questo, come dimostra la storia recente, si risolve sempre in un dissesto dei conti pubblici che l’Unione Europea ha già dichiarato di non voler più tollerare. I cittadini europei hanno imparato che non devono più votare governi che non tengono austeramente i loro conti in ordine e che bisogna diffidare da quelle componenti politiche che non promuovono regole fiscali stringenti per raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio.
Per lunghi anni, molti economisti, soprattutto di scuola keynesiana, hanno consigliato ai governi l’adozione di politiche di indebitamento e di uso del deficit come motore per la crescita. Indebitarsi a breve per crescere nel lungo periodo, questa in sintesi la ricetta di questa branca della dottrina economica. Ed inutile è il pensare alle conseguenze economiche sul lungo periodo perché, come diceva Keynes, "nel lungo periodo siamo tutti morti". Purtroppo, invece, sono le nuove generazioni che pagano i debiti dei loro padri. E’ arrivato quindi il momento di ritornare a pensare ad un economia come quella proposta dagli economisti classici di area liberale, per i quali il bilancio statale deve essere in pareggio, in quanto le spinte propulsive dell’economia devono derivare dalla concorrenza e dal libero mercato e non dal debito. Se l’Europa vuole evitare in futuro altre crisi come quelle di Grecia, Irlanda e Portogallo deve al più presto attuare le proposte relative a nuove regole fiscali che stanno emergendo in seno agli organismi istituzionali europei.