La crisi di Schengen e l’Europa che verrà

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La crisi di Schengen e l’Europa che verrà

La crisi di Schengen e l’Europa che verrà

26 Dicembre 2016

La facilità con cui Anis Amri, il killer di Berlino, è riuscito a fuggire in Europa dopo la strage, prima di essere fermato dalla polizia italiana durante un controllo di routine, riapre la ‘questione di frontiera’. Frontiera è un concetto ambivalente: la “nuova frontiera” di Kennedy, remake della conquista del West, ha un significato progressivo, di libertà, apertura e speranza; ma come nello Hobbit di Tolkien, c’è anche un altro significato della stessa parola, la frontiera come confine che difende e preserva “la Contea” dalle minacce del mondo esterno. 

Non c’è dubbio che per la “generazione erasmus” nata all’ombra del crollo del Muro di Berlino, della fine della Guerra Fredda e della globalizzazione, la parola frontiera ha avuto il primo significato, quello ‘kennediano’, di superamento dell’idea dei confini nazionali, muoversi, studiare, viaggiare e lavorare tra le capitali europee. Ma dagli accordi di Schengen incorporati nel Trattato di Amsterdam, che delineano la nuova Europa senza confini, è trascorso qualche decennio, e nel frattempo quella idea di apertura si è cristallizzata nella ideologia politicamente corretta, multiculturale, “open borders”, teorizzata dalla candidata, sconfitta, alle elezioni americane, Hillary Clinton, come emerso dalle rivelazioni di WikiLeaks: “Sogno un mondo senza frontiere”. Un mondo nel caos.

Nel frattempo, le elezioni Usa le ha vinte Donald Trump, sull’onda di una reazione popolare senza precedenti all’ideologia “no borders” teorizzata dalle elite politico-economiche globali. Oggi, la frontiera torna ad acquistare il significato che le dava Frodo, lo hobbit di Tolkien. Una sfida per proteggersi. La violenza del terrorismo e la prepotenza del suprematismo islamico hanno fatto capire a molti che il prezzo della libertà di viaggiare più facilmente in Europa sta diventando troppo alto. Gli accordi di Schengen prevedevano una “cooperazione rafforzata” tra i Paesi membri della Ue per garantire la sicurezza dell’area europea, ma questa condivisione di intelligence, a quanto pare, è in crisi. 

La “totale libertà di movimento”, per Marine Le Pen, è “un mito” che stiamo pagando caro e che porterà verso una “catastrofe totale della sicurezza”. Nonostante questo, dopo l’attacco di Berlino, Angela Merkel parlando ai tedeschi ha difeso ancora una volta la società “aperta”. Ma quel “mito”, in realtà, si sta già sbriciolando. Numerosi Paesi europei negli ultimi due anni si sono appellati proprio al trattato di Schengen per reintrodurre controlli alla frontiere ed arginare la immigrazione fuori controllo, Germania compresa. 

Schengen doveva servire simbolicamente ad allontanare lo spettro di nuove guerre tra i Paesi europei, ma almeno per il momento non ha impedito anzi sembra favorire la diffusione della Jihad, la guerra santa, nel Vecchio Continente, si veda l’ultima intervista rilasciata da Gilles Kepel alla Stampa sulla frattura tra musulmani e società europee. “Muoversi da una nazione europea all’altra, soprattutto per gente come Amri, che ha vissuto anni in Europa, è particolarmente facile”, ha detto il ministro degli esteri tunisino Limam. 

L’imbarazzo francese degli ultimi giorni è tanto più evidente se pensiamo che i controlli sui treni erano stato rafforzati dopo quello che accadde sulla rotta Amsterdam-Parigi nel 2015. L’anno scorso, dopo che un commando di terroristi islamici uccise 130 persone a Parigi, ci vollero mesi prima di pescare il sospettato chiave della strage, Salah Abdeslam, che si era nascosto in Belgio. Si scoprì anche che Salah, con nazionalità francese, aveva viaggiato liberamente in Italia prendendo il traghetto nel porto di Bari per andare in Grecia, mesi prima degli attacchi a Parigi.

E’ vero che immigrazione non è sinonimo di terrorismo, ma immigrazione e sicurezza saranno le parole d’ordine centrali delle prossime elezioni in Germania, Francia, Olanda, Italia, tutti Paesi fondatori della Ue, e tutti percorsi da fremiti antieuropei. Così, la generazione erasmus cresciuta viaggiando tra le capitali europee senza neppure avere più bisogno del passaporto o di cambiare le vecchie lire in marchi o franchi, avendo in tasca il nuovo euro, adesso si chiede se ne è valsa la pena.