La cura Bush per l’economia non basta ma la crisi è destinata a passare
14 Febbraio 2008
La sera di giovedì 7 febbraio il Senato degli Stati Uniti ha approvato lo stimulus bill, il provvedimento voluto da George W. Bush per rilanciare l’economia americana che si impegna a distribuire 168 miliardi di dollari a 130 milioni circa di famiglie che dimostrino di avere un reddito inferiore ai 125.000$ l’anno.
Così come tutti gli investimenti atti a stimolare l’economia, questa misura a prima vista appare notevole. L’esperienza insegna che disposizioni simili adottati durante lo scorso periodo di crisi economica (2001), così come quello precedente (1990-91) hanno portato la famiglia media a risparmiare un terzo degli aiuti statali (versati sottoforma di stimulus check), e a spendere il resto. Molto probabilmente, questa volta le famiglie sceglieranno di mettere da parte una fetta più consistente di quanto ricevuto, dato che non sono mai state così indebitate come oggi, né così sotto pressione per l’urgenza di credito.
Tuttavia, 168 miliardi di dollari non sono una cifra neppure lontanamente sufficiente ad invertire la tendenza negativa dell’economia; possono tutt’al più solo rallentarla. Facciamo qualche conto. Alla fine di dicembre, gli americani avevano accumulato 944 miliardi di dollari di debito sulle loro carte di credito; a novembre erano 942 miliardi, mentre a ottobre ci si fermava a 933. Se una volta ottenuto lo stimulus check le famiglie provvederanno a spenderne circa due terzi, questo si tradurrà nel concreto nell’equivalente di 7 mesi di utilizzo delle loro carte di credito. Posto che la mia stima riguardante l’indebitamento ed il modo di agire delle famiglie sia corretta, la spesa delle famiglie con questa manovra sarà inferiore a quello che i dati finora suggeriscono. Dunque il reale impatto fiscale sarà anch’esso inferiore –forse più vicino a 5 mesi di utilizzo delle carte di credito. Non insignificante, certo, ma sicuramente non abbastanza da rivoluzionare l’economia.
La celerità con cui si è scritta ed approvata la legislazione ci dice molto riguardo all’iniziativa. In questo anno elettorale, i politici necessitano di misure per autotutelarsi -in particolar modo quando, come ora, gli elettori non sono particolarmente tranquilli. Gli assegni verranno spediti a partire dalla fine di aprile, proseguendo per tutto maggio; il provvedimento resterà valido per l’intera estate sino all’autunno, e gli elettori si recheranno alle urne in novembre. Dunque seppur 168 miliardi di dollari non siano certo sufficienti a risanare l’economia che tende a valori negativi, saranno indubbiamente abbastanza per levare la spada di Damocle dal collo dei candidati di entrambe i partiti, che altrimenti ne risentirebbero.
Lontana da Washington e a contatto con la reale situazione economica nel paese, la stampa conferma la tendenza di tutte le maggiori banche a ridurre i finanziamenti alle famiglie in pressoché tutte le formule: linee di equity per mutuanti, carte di credito, concessione di mutui, finanziamenti per l’acquisto di un’automobile e prestiti con rimborso a rate. In ogni caso, i crediti disponibili si sono ridotti, ed i criteri di eleggibilità sono molto più ristretti. Le famiglie imparano presto, ed hanno ricevuto il messaggio. Ogni tipo di garnde distribuzione, da quella superlusso come Neiman Marcus, fino ai grandi magazzini popolari come WalMart, riporta un calo vertiginoso nelle vendite, una diminuzione delle visite e un volume di acquisti drasticamente ridotto. Non c’è dubbio: il Consumatore Americano alla fine sta sventolando bandiera bianca.
Non dovremmo però preoccuparci eccessivamente. Questi dati sono importanti, ma non sono drammatici. La spesa dei consumatori rappresenta i due terzi del Prodotto Interno Lordo statunitense, il che significa che le famiglie americane costituiscono circa un decimo della domanda globale -il che a sua volta dimostra come gran parte del mondo faccia quadrare i bilanci vendendo beni di ogni genere agli USA. In ogni caso, non c’è motivo per agitarsi.
Se la famiglia media americana passerà i prossimi 12 mesi a ridurre i propri consumi, ripagando i debiti e mettendo ordine nel modo in cui risparmia (non affidandosi più alla rivalutazione dei prezzi degli immobili o agli indici di borsa come forme di risparmio, ad esempio), ci aspettano un 2009 e 2010 migliori. Come disse l’ex governatore della banca centrale Arthur Burns molti anni fa, “nel lungo periodo, i trend insostenibili non si potranno sostenere”. Senza esagerare il quadro complessivo, vero è che il Consumatore Americano ha spinto avanti l’economia mondiale negli ultimi 15 anni; e questa situazione a lungo termine sarebbe stata insostenibile. L’unica considerazione era che la maggior parte di noi non sapeva quanto sarebbe durata la festa. Ora lo sappiamo.
Sfortunatamente, la “fine della festa” coincide con un fenomeno globale negativo: il mercato degli immobili in tutto il mondo è improvvisamente diventato insicuro. Gli investitori britannici stanno subendo pesanti e repentine perdite; i costruttori spagnoli dichiarano bancarotta; i prezzi si ridimensionano a Berlino, a Parigi, persino a Singapore. Per che motivo? In molti casi, perché il flusso costante dei crediti bancari, che per il mercato immobiliare è come ossigeno, si sta assottigliando o sta del tutto scomparendo. Ora, questo è qualcosa di cui preoccuparsi.
Il problema riguarda più le banche in sé che il mercato immobiliare. Se guardiamo ai finanziamenti approvati dalle maggiori banche mondiali, vediamo che le cifre sono ancora in aumento, ma i beneficiari non sono quelli tradizionali (famiglie, affaristi, governi). Il denaro, seppur in maniera indiretta, va alle banche stesse. Per quale motivo? Nel corso degli ultimi 10 anni, quasi tutte le maggiori banche del mondo hanno creato fondi di investimento che teoricamente dovevano autofinanziarsi (e creare profitti per le banche stesse); ora questo meccanismo non è più in grado di funzionare, e i fondi vengono rispediti al mittente. Le banche non possono permettersi di sbagliare questi investimenti, perché se i fondi falliscono le banche dovrebbero vendere i beni nei quali hanno investito (i quali, tra l’altro, appaiono anch’essi in forma diretta o indiretta sui documenti riassuntivi dello stato patrimoniale delle banche stesse).
Riappare così la più antica forma di crisi finanziaria: qualsiasi sistema creditizio può assorbire una perdita, persino una perdita ingente; ma questo non può accadere rapidamente. Ci vuole tempo per gli adeguamenti. Così, il flusso di credito ai beneficiari reali è in diminuzione, perché le banche devono prima di tutto risolvere i propri problemi. Finché le banche non si risistemeranno ed assorbiranno le proprie perdite, l’intero sistema a livello globale deve rallentare, riprendere fiato, e attendere.
Quanto durerà questa fase?
É da qualche tempo che sto tentando di calcolare -e con me molti altri- i tempi e la portata del problema. La mia miglior ipotesi è che si parli di cifre comprese tra i 250 e i 350 miliardi di dollari. In assenza di un intervento diretto dei governi, ed introducendo attente misure per regolare i modi in cui le banche nel mondo si autofinanziano, queste stime così consistenti si traducono in un periodo che prevede altri 12-16 mesi per il solo assorbimento, unitamente ad una certa quantità di perdite per le banche. Cosa possiamo dire a riguardo? Beh, peccato per il 2008. Già nella seconda metà del 2009 dovremmo aspettarci però un miglioramento.
L’ultima volta che ho scritto, avevo previsto la bancarotta di almeno una tra le maggiori banche europee, sulla scia della caduta della Northern Rock nel Regno Unito. Ora abbiamo la Westdeutsche Landesbank –l’avidità fatta a persona, anzi a banca, se mai dovessimo scegliere un caso paradigmatico. Ci saranno probabilmente altri fallimenti in futuro. Ora è il tempo in cui i forti si cibano dei deboli, e gli scaltri approfittano degli sciocchi.
Traduzione di Alia K. Nardini