La Danimarca è interventista perché vuole un islam democratico
25 Marzo 2011
Tra i primi paesi a schierarsi a favore dell’intervento militare in Libia c’è stata la Danimarca. Non solo a parole: F-16 danesi decollano dalle basi aeree italiane, testimoniando un impegno concreto.
La posizione del governo danese è stata netta sin dal principio, tanto che a Copenhagen si sarebbero auspicati più celerità da parte degli organismi internazionali. Tutti i partiti hanno criticato a lungo l’indecisionismo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. La fretta era tanta quasi da non poter aspettare: “Preferiremmo ci fosse un mandato dell’Onu” dichiarava Villy Søvndal, leader del partito popolare socialista, un paio di giorni prima dell’attacco “ma penso che non sarebbe moralmente accettabile che la comunità internazionale rimanga a guardare mentre a Gheddafi viene permesso di uccidere gran parte della popolazione”.
Non stupisce quindi che, non appena l’Onu ha dato il via libera alla No Fly Zone, i danesi siano stati i primi a dare il loro contributo. Tutti i partiti di maggioranza e di opposizione hanno votato per l’intervento (solo in un secondo momento l’Alleanza Rosso-Verde, il più a sinistra dei partiti danesi, ha chiesto di interrompere gli attacchi visto che la No Fly Zone è stata imposta, e ha criticato l’aggressività delle operazioni). Ci si può chiedere il perché di una posizione tanto netta. A parte l’interesse condiviso da tutto l’occidente (le risorse energetiche, petrolio in testa) la Danimarca non ha infatti particolari obiettivi economici in Libia. Il motivo per il quale i danesi hanno deciso di intervenire è stato di tipo umanitario: difendere la popolazione civile.
Ma c’è dell’altro, c’è un atteggiamento nei confronti della politica estera che in Danimarca negli ultimi anni è cambiato, portando il paese a giocare un ruolo più attivo. Non è un mutamento legato all’alternarsi della destra o della sinistra. Anders Fogh Rasmussen, due volte primo ministro conservatore dal 2001 al 2009, non ha esitato nell’inviare i soldati danesi prima in Afghanistan e poi in Iraq, cosa che probabilmente lo ha aiutato ad essere nominato segretario della Nato. Questa sorta di ‘interventismo’ danese non è cambiato con il suo successore Lars Løkke Rasmussen, attuale primo ministro. Non è cambiato anche perché la Danimarca guarda a sé stessa come un esempio di democrazia, e le forti reazioni del mondo arabo seguite alle vignette satiriche sul profeta Maometto pubblicate dal quotidiano Jyllands-Posten nel 2006 hanno rafforzato questi sentimenti. I partiti politici hanno assecondato o accettato questa tendenza, tanto che in sostanza la distinzione in parlamento la si trova non più sull’opportunità di intervenire o meno militarmente, ma sulla modalità dell’intervento militare.
Non va sottovalutata neanche la tempistica dell’operazione. La guerra in Libia capita in un momento particolarmente difficile per il governo Rasmussen. Tra scandali e ministri dimissionari, l’esecutivo è in sofferenza. Seppur con le dovute differenze, si può leggere una similitudine con la Francia, il paese che ha preso in mano l’iniziativa militare. In Francia l’anno prossimo si vota, la popolarità di Sarkozy è in discesa, ridare a Parigi la leadership europea in politica estera può essere un’ottima carta da giocare. In Danimarca le urne sono ancora più vicine: le elezioni sono previste per l’autunno di quest’anno.
L’operazione militare in Libia rappresenta per il premier Rasmussen un’opportunità per ridare lustro alla sua figura, per dare respiro all’esecutivo e per far parlare di altro giornali e cittadini, la maggior parte dei quali asseconda l’intervento. Una buona occasione che però nasconde un rischio: come detto, i danesi sono stati e sono sostanzialmente favorevoli ad attacchi aerei sul territorio libico. Ma non c’è la voglia di impelagarsi in un altro Afghanistan: in pratica, sì ai bombardamenti, no a qualunque tipo di operazione a terra. Eventualità che è ancora troppo presto per poter escludere del tutto.