La democrazia ha già fatto breccia nel mondo islamico
30 Aprile 2008
L’Islam non
è qualcosa di immutabile e sempre uguale a se stesso. Nuove forze intellettuali
premono per un rapido cambiamento storico, una vera riforma che separi la
religione dalla politica. Giornali, riviste e blog indipendenti chiedono maggiori
%0Alibertà individuali, diritti civili, sovranità popolare, insomma le basi
fondamentali della democrazia rappresentativa. Dopo l’11 Settembre, Internet è diventato
un potentissimo vettore che dà voce ai dissidenti islamici facendo rimbalzare
le loro proteste e le loro richieste d’aiuto da un capo all’altro
dell’Occidente.
Un buon
esempio è il magazine on line Elaph, lanciato nel 2001. Dalla sua redazione
londinese, il direttore responsabile Othman al Omeir assicura che il suo
giornale è un esempio di imparzialità. La testata pubblica “una media di 1,6
articoli al giorno” collegati ai diritti umani, ai diritti civili e politici, alla
libertà di espressione e di opinione. Su queste pagine si affrontano la
condizione della donna e degli omosessuali nel mondo islamico. Elaph ha fornito
una serie impressionante di informazioni sulle repressioni delle minoranze in
Siria, quella stessa Siria che – corteggiata a lungo dagli europei – nel 1982
rase al suolo la città ribelle di Hama, facendo tra i diecimila e i
venticinquemila morti (le vittime del massacro palestinese di Sabra e Chatila,
nello stesso anno, furono ‘appena’ ottocento). Elaph ha dato voce al coraggioso
editore yemenita che ripubblicò le vignette danesi su Maometto. Ha criticato la
reazione spropositata delle masse arabe alle parole di Benedetto XVI chiedendosi
“perché i musulmani non reagiscono con la stessa forza per il genocidio in Darfur
o quando i musulmani vengono uccisi in Iraq”. Ha accusato il regista americano
Michael Moore di manipolare le interviste dei soldati americani in Iraq per
seminare il panico nell’opinione pubblica araba.
Confuso
all’odore delle fiamme e al fumo delle bombe, nella “Nuova Baghdad” si respira
il profumo di una speranza. Il giornalista Abd Al-Jabbar Al-Atabi ha camminato
per le strade della città osservando le facce delle persone che incontrava e, “a
dispetto di tutto quello che è successo e sta succedendo, questi uomini e
queste donne sanno che l’epoca della dittatura è finita per sempre”. Vivere a
Baghdad non è l’ideale ma durante la dittatura ogni ottimismo era perduto. “Il
progresso, la libertà e la democrazia hanno un costo – scrive il giornalista
egiziano Ashraf Radi – ed è un costo che deve essere pagato da questa
generazione per non lasciare in eredità a quelle successive soltanto caos e
guerre. Nel mondo arabo nessuno ha scritto una parola sui crimini tirannici di
Saddam, ma non c’è futuro senza democrazia”. Per il liberale palestinese Ahmad
Abu Matar l’Iraq deve imparare molto dalla Germania e dal Giappone. Così come i
Paesi dell’Asse usciti sconfitti dalla Seconda Guerra mondiale divennero in
qualche decennio delle potenze economiche, l’Iraq dovrebbe sfruttare le
opportunità dell’occupazione americana per riordinare i propri affari interni e
rimettere in piedi il suo sistema produttivo. La nuova democrazia irachena
resterà traballante se insieme alle elezioni, ai nuovi partiti, alla carta
costituzionale, non ci sarà una ricostruzione economica.
Per
Shaker Al-Nabulsi, la guerra tra Saddam e gli Stati Uniti si è trasformata in
un conflitto tra il fondamentalismo e il liberalismo islamico, tra reazione e modernità,
dittatura e democrazia. Negli ultimi cinque anni molti scrittori liberali sono
apparsi sui media arabi e hanno avuto la possibilità di esprimere la propria
visione del mondo. Al-Nabulsi esalta “il gran numero di siti web che ospitano
gli scritti di questi autori”. Ovviamente non possiamo paragonarli all’appeal
mediatico di Bin Laden o alla propaganda delle televisioni collaterali ad Hamas,
“ma la maggior parte dei siti fondamentalisti si ripetono incessantemente,
reiterando le loro parole d’ordine di morte, mentre quelli liberali cercano di offrire
notizie e idee nuove ogni giorno”. Giornali come Elaph non contengono solo
discorsi intossicati dall’ideologia o dal populismo, ma questioni che
riguardano le élite destinate a governare le future democrazie dell’Islam.
Quanto
ci vorrà prima che l’illuminismo islamico si compia? Alla chiesa cristiana
servì qualche secolo per accettare la separazione tra “regnum” e “sacerdotium”
e poi per fare i conti con la democrazia. Questa transizione è appena iniziata
nell’Islam. Dei cinquattasette stati membri dell’OCI, la Organizzazione della
Conferenza Islamica, solo uno, la Turchia, ha sperimentato per lungo tempo un
sistema democratico, non senza passi indietro e contraddizioni. Dopo il
colonialismo, e una volta raggiunta l’indipendenza, altri Paesi arabi provarono
a darsi parlamenti di stampo occidentale ma questi tentativi sono sfociati in
dittature corrotte e sanguinarie. L’Occidente ha preferito dialogare con
monarchi, autocrati e tiranni che consentivano di fare affari con l’Oriente
senza preoccuparsi della mancanza di diritti e libertà che affliggevano i
popoli.
Nel
millenario e glorioso passato islamico c’è stato spazio per il dialogo
religioso e il rispetto delle diversità. Dopo il tramonto del panarabismo, la
Sharia – o meglio ancora una interpretazione iperletterale della Sharia – è
tornata ad essere una forma di governo attraente per chi discrimina le
minoranze, le donne, i laici e chiunque metta in discussione i dogmi basilari
dell’Islam. Invece di riformarsi e modernizzarsi questi Paesi si sono progressivamente
rinchiusi in una visione conservativa delle proprie origini. Le condanne a
morte per apostasia, l’odio che si trasforma in martirio, sono interpretazioni
arcaicizzanti della giurisprudenza islamica tradizionale. In principio ‘fatwa’
non significava caccia all’uomo.
Ci sono
intellettuali più scettici, diremmo ‘sciasciani’, che credono in un mondo retto
dalla Logica e dal Progresso ma guardano con pessimismo al destino della loro
terra, regredita verso la superstizione e l’irrazionalità. Ne è convinto il
saudita Turki Al-Hamad: con la rivoluzione iraniana “la morte ha preso il
controllo sulla vita”, mentre il risveglio salafita ha prodotto “una cultura
stagnante” che si considera “la numero uno” al mondo. “Le generazioni future%0D
chiederanno cosa abbiamo fatto per loro”.
La
grande stampa araba non ama i ‘neoliberali’. Secondo Al Jazeera sono alla
destra del sionismo, scimmiottano i neoconservatori americani, tendono
ciecamente verso tutto quello che è occidentale. “Sono forse qualcosa di diverso
da una Quinta Colonna?”. Eppure questi pensatori stanno costruendo una
nuova personalità araba destinata a liquidare la violenza, il servilismo, l’irrazionalità,
il tribalismo e il razzismo, per diventare razionale, realista, scientifica,
patriottica senza essere xenofoba. Parliamo di un gruppo intellettuale disorganico che non fa capo
a un movimento politico-culturale vincente, che non ha grandi finanziatori o
capi carismatici e proprio per questo ha bisogno del nostro aiuto. Credono che
il mercato sia un mezzo migliore della religione per governare le masse e preferirebbero
ottenere i loro risultati pacificamente, com’è avvenuto dopo la caduta del Muro
di Berlino nei Paesi comunisti. Insomma sperano che il fascismo islamico imploda
sotto il peso delle sue contraddizioni. In ogni caso il cambiamento sarà
graduale e difficilmente questa rivoluzione avverrà in modo pacifico. “La
creazione di una democrazia nel Medio Oriente non sarà né rapida né facile – ha
scritto il professor Bernard Lewis – meno ancora di come fu in Europa o nelle
Americhe”. Un compito difficile ma non impossibile.