La democrazia non si fa a colpi di diffamazione e sentenze diramate a mezzo stampa
05 Ottobre 2007
Ci voleva una puntata di “Anno Zero” come quella andata in onda ieri sera, per dimostrare quanto male possono fare le armi improprie nell’agone politico? Certamente no.
Non è da ieri che i processi travalicano le aule per tracimare nei canali mediatici, in sedi e su bocche improprie; non è da ieri che le iniziative di magistrati troppo compenetrati nel ruolo di salvatori della patria aggrediscono la classe politica, senza alcun riguardo per le garanzie minime che uno stato di diritto dovrebbe offrire; non è da ieri che giornalisti e giudici si inventano supplenti del primo e secondo potere (legislativo ed esecutivo), nell’apparente intento di salvaguardare l’autonomia del terzo e del quarto (giudiziario e di stampa), in realtà sovvertendo la divisione stessa che sta alla base della democrazia parlamentare.
Cinque anni dopo l’intervento di un presidente del Consiglio a mettere in guardia da queste deviazioni, un altro presidente del Consiglio è costretto a constatare la poca “serietà, professionalità e appropriatezza” del pretestuoso intervento mediatico contro un rappresentante delle istituzioni; salvo che, si capisce, è diverso il colore politico dei due premier. Eppure, se l’attuale maggioranza fosse stata in grado, nel frattempo, di elaborare una posizione riflessa sul cosiddetto “editto di Sofia”, meditando sulle ragioni che avevano condotto Berlusconi alla sua dura presa di posizione, forse un ministro della Repubblica non sarebbe oggi costretto a subire l’ennesimo linciaggio.
Più in generale, se la logica dello scontro politico italiano non fosse improntata a consentire l’ingresso in campo a qualsiasi ultras malintenzionato, purché diretto contro il proprio avversario, non dovremmo oggi ancora discutere se la trasmissione di Michele Santoro possa definirsi un momento di alto giornalismo, come ha affermato Sandro Curzi, o piuttosto un esempio di fazioso accanimento a colpi di pregiudizio (nel senso etimologico della parola: un giudizio emesso ancora prima che possano essere esaminati i fatti).
La corsa a squalificare gli oppositori è una gara al ribasso in cui nessuno esce vincitore: l’opposizione ha ora un’occasione per mostrare di averlo compreso e insegnarlo a propria volta alla cosiddetta magggioranza. Invece di cavalcare la tigre, bisogna ora sbarrare il campo a certe pratiche, come la santificazione delle toghe usate all’occasione come corpi contundenti.
Vale per la Forleo, non a caso ospite d’onore del tribunale santoresco: in passato, è bastato che la giudice volesse indagare su D’Alema e Fassino per far dimenticare le sue posizioni sui terroristi assolti come “resistenti” e valerle un trattamento di riguardo anche tra le file di certo centrodestra.
Vale per De Magistris: che nelle ultime settimane per certa stampa si è trasformato da giudice sotto ispezione (da tre anni) a semplice capro espiatorio di Mastella.
Per entrambi, le performance di ieri dovrebbero convincere tutti dell’insensatezza di usare elementi simili come corpi contundenti, strizzando l’occhio a un giustizialismo che non aspetta se non l’occasione per ritorcersi contro chi lo maneggia. Passi che per il centrosinistra questo sia un concetto troppo arduo da afferrare e praticare: ma la CdL non può ora mettersi ad applaudire Santoro, purché dia il colpo di grazia al traballante esecutivo di Prodi.
E’ il momento di offrire una lezione di democrazia vera a tutti coloro che credono di fare i democratici a colpi di diffamazione e di sentenze sommarie diramate a mezzo stampa: la rivincita della politica passa per la messa al bando del doping giustizialista che droga l’opinione pubblica, e per il rifiuto netto di seguire la legge del taglione, opponendo a Santoro un Santoro e mezzo.