La depressione ha ucciso Robert Enke, ultima vittima di una malattia subdola

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La depressione ha ucciso Robert Enke, ultima vittima di una malattia subdola

11 Novembre 2009

La depressione è una malattia subdola, che non guarda in faccia nessuno. E’ così che ci ritroviamo a parlare dell’ennesima tragedia nello sport, che in questo caso unisce e avvicina storie di uomini, prima ancora che atleti. Martedì Robert Enke, 32enne portiere dell’Hannover e della nazionale tedesca, è stato trovato morto nei pressi di un passaggio a livello. Si è suicidato gettandosi sotto un treno, a poche centinaia di metri dalla sua abitazione.

Enke ha lasciato una moglie e una bimba di 8 mesi – adottata a maggio – probabilmente sopraffatto dal dolore di aver già perso una figlia tre anni fa, a causa di problemi al cuore. Teresa, la vedova, ancora stordita dagli avvenimenti è riuscita solo a dire, con gli occhi bassi:  “Ho cercato di stargli accanto”. Il suo medico curante, il dottor Valentin Markser, ha confermato che Robert si sottoponeva a cure specifiche dal 2003.

Come sempre succede in questi casi tutto il movimento calcistico si è stretto intorno alla famiglia (forse tardivamente, ma questo non possiamo saperlo), a partire dal presidente del club in cui Enke giocava, Martin Kind, che ha parlato di “Tragedia assoluta”. Anche l’ambiente della Nazionale tedesca ha voluto rendere omaggio al portiere, e ricordare, annullando l’amichevole che avrebbe dovuto disputare sabato a Colonia contro il Cile.

Una testimonianza toccante è arrivate pure dai tifosi dell’Hannover. Circa 300 di loro si sono ritrovati davanti alla sede del club a deporre fiori e candele per formare il numero 96, in riferimento al 1896, anno di fondazione del club. Il dramma (come di norma) è però rimbalzato anche fuori dagli ambienti sportivi; la cancelliera tedesca Angela Merkel si è sentita in dovere di scrivere una lettera alla vedova di Enke in cui ha espresso il suo sgomento per la morte.

Il presidente dell’Uefa, Michel Platini, si è detto “scioccato e profondamente triste” aggiungendo che: “In un momento come questo, è impossibile trovare le parole giuste”. Parole che invece Enke aveva trovato, e lasciato, in una lettera di addio prima di suicidarsi. Parole che spesso in questi casi possono servire solo a consolare, mai a prevenire.

Tornano alla memoria altri episodi simili accaduti solo pochi giorni, o al massimo mesi, fa. Il ciclista Dimitri De Fauw, 28 anni, si è tolto la vita il 6 novembre scorso, durante la Sei giorni di Gand, per aver fortuitamente provocato, nel 2006, la caduta dello spagnolo Isaac Galvez, morto per le ferite riportate. Meno di un mese fa, il 12 ottobre era morto un altro ciclista, Frank Vandenbroucke. Il belga era da tempo affetto da depressione e aveva già tentato il suicidio nel 2007 (mentre nel 2008 era stato trovato in possesso di cocaina). Lo chiamavano "James Dean" e la sua vita aveva tante analogie con quella di Marco Pantani.

Per tornare al calcio si possono ricordare le storie di Gigi Buffon, che nonostante una vita piena di successo (è sposato con Alena Seredova, è padre, gioca nel più grande club italiano ed è campione del mondo) si è ritrovato vittima della depressione, come d’altra parte Christian Vieri, che lo scorso anno ha depositato presso il Tribunale di Milano una perizia medica che certifica un periodo di depressione di 9 mesi (dall’autunno 2006), in seguito alla scoperta di pedinamenti e intercettazioni che avrebbe subito dalla sua squadra di appartenenza, l’Inter.

Ci fermiamo qui, ma potremmo proseguire in una lista lunghissima di questi casi, che senza scendere nella retorica ci fanno riflettere sul fatto che molto spesso questi atleti hanno un vissuto personale, nascosto dai riflettori e lontano dalla ribalta, che spesso è fatto di storie tragiche che non ci aspetteremmo davanti ai lustrini e ai riflettori della celebrità.

Ieri sera sotto quegli stessi riflettori – ora accesi e vigili – il vescovo protestante di Hannover, Margot Kaessmann, ha celebrato un servizio funebre per Enke e subito dopo un corteo si è diretto verso lo stadio dell’Hannover, ma a noi continua a girare in testa il più classico degli interrogativi: tutto questo si poteva evitare? Probabilmente no, ma occorre riflettere.

Un professionista, sia esso un operaio, un manager o un impiegato, solitamente viene lasciato a riposo quando colpito da questa malattia; perché mai la stessa sorte non tocca anche agli atleti, costretti viceversa a tirare avanti ad ogni costo? Forse proprio la notorietà li porta a vivere in maniera amplificata la loro condizione di fronte al mondo, non permettendogli di rallentare e magari ripensare profondamente se stessi.

Una cosa però è certa, Robert Enke non si è fermato e ha giocato la sua ultima partita appena 4 giorni fa, in una domenica come tutte le altre, per tutti gli altri.