La deriva ‘oscura’ della volontà di superare il “dogmatismo liberale”

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La deriva ‘oscura’ della volontà di superare il “dogmatismo liberale”

22 Agosto 2012

E’ da qualche tempo che il filosofo della scienza e metodologo delle scienze sociali, Michele Marsonet, sul benemerito periodico on line ‘Legno storto’, va mettendo in guardia contro il ‘dogmatismo liberale’ e <l’individualismo come unico metro di giudizio>, che, a suo avviso, starebbero corrompendo la civic culture del nostro paese. Alla base dei suoi ‘moniti all’Italia’, c’è la distinzione – peraltro discutibile, almeno nei termini proposti – tra il liberalismo scozzese (A. Smith, D. Hume etc.) e quello francese (Constant, Tocqueville). Quest’ultimo si guarderebbe saggiamente dal sostituire alla <santificazione dell’interventismo statale quella del libero mercato>.

Sennonché quali sono (o sono stati) i mali portati dal libero mercato in Italia? Marsonet non ne ha indicato neppure mezzo, limitandosi ad osservare <che ormai anche il nostro sistema economico è così legato agli altri da non poter sfuggire ai guasti di cui sopra>. Non è quindi per ‘eccesso di mercato’ che stiamo sprofondando in una crisi economica di portata epocale ma per esserci legati a un processo di produzione e di scambio planetario (da cui Marsonet, peraltro, non chiede di uscire, non essendo né protezionista né nazionalista). E’ come dire a uno che soffre la fame e la sete: ne avrai per poco, giacché pure tu ormai appartieni alla categoria di quanti hanno il problema del sovrappeso e delle diete!

Mercatismo? Statalismo? Ma qui il problema non è più la diagnosi ma la prognosi ed è sulle misure da adottare che si gioca la partita decisiva tra liberali (classici) e welfaristi. E la mia netta impressione è che se, nel nostro paese, adottiamo il principio <un po’ più Stato, un po’ meno mercato>, in fondo al tunnel, troviamo, per lo meno, il fascismo – ovvero un regime autoritario meno spietato di quello comunista ma altrettanto inimico all’’individualismo ruggente’. (Culturalmente, forse, ci siamo già, come teme Piero Ostellino, ma apro e chiudo subito la parentesi).

Come molti liberali autocritici, anche Marsonet invita a non confondere l’economia reale con l’economia finanziaria, riproponendo, in sostanza, una diffidenza nei confronti  della seconda che ci riporta al socialismo dei produttori,  teorizzato da Saint-Simon e poi da Proudhon. Non ho conoscenze tecniche in fatto di <prodotti finanziari derivati>, che superano <oggi, di ben 10 (dieci) volte il PIL mondiale>, ma, nello spirito del mio liberalismo qualunquistico, mi sorge un dubbio: i banchieri  sono o no imprenditori come tutti gli altri? E non sono tenuti a offrire prodotti affidabili? E se non lo fanno non si pongono sullo stesso piano di quei pastai che, al tempo delle nostre prime guerre coloniali, vendevano all’esercito pasta avariata? E se buggerano i clienti non meritano di portare i loro libri dinanzi ai tribunali? E i governi che ci stanno a fare? Non compete a loro vegliare – secondo le più classiche prescrizioni della filosofia liberale del mercato – affinché le merci in vendita (pasta o azioni) non rappresentino un danno per gli acquirenti?

Non credo che Adam Smith, che Marsonet contrappone – o, per lo meno, diversifica da Constant e da Tocqueville – avrebbe acquistato titoli sospetti né che avrebbe consigliato agli amici di farlo. Sapere che i governi si sarebbero trovati nella condizione di <sbarazzarsi dei derivati ‘tossici’> lo avrebbe fatto, per lo meno, trasalire e portato a chiedersi se, per caso, non fosse tornato al governo John Law, il finanziere scozzese che, nel 1720 con le sue disinvolte teorie monetarie sconquassò in Francia il sistema bancario.

Marsonet non è certo un adepto di La Pira e di Balducci (tra l’altro, degnissime persone!) ma tanti discorsi sulla necessità di superare il <dogmatismo liberale> conduce, nel migliore dei casi, alla democristiana <economia sociale di mercato> – espressione che, per me, ha lo stesso <colore oscuro> del <federalismo solidale> e di altre balle spaziali -, nel peggiore, a una rinascita dello statalismo collettivista.