La destra di Piñera ha vinto perché in Cile esiste un vero “ceto medio”
20 Gennaio 2010
“El ultimo lugar del mundo, luego della cordillera”. Nessuno come Montaner, cantautore straniero (argentino naturalizzato venezuelano), ha saputo sintetizzare l’essenza del Paese dei condor. In quei luoghi lontani non è difficile essere accolti da amici con un confidenziale: “benvenuto nel c… del mondo”. D’altronde –poeticamente – una delle più antiche case vinicole della valle del Maipo ha chiamato il suo prodotto di punta “finis Terrae”.
Questo è il Cile: remoto, estremo, esoticamente sconosciuto. Poche sono le notizie che da quel paese giungono in Europa, soprattutto in Italia. Forse qualcuno sa di avere qualche lontano parente, discendente di un flusso migratorio vecchio di almeno 50 anni. Qualche consumatore attento può accorgersi che parte della frutta fuori stagione che fa bella mostra di sé nei mercati proviene da qual paese. Per il resto… nulla. Solo in occasione del colpo di stato che portò al potere Pinochet (quasi 37 anni fa) gli osservatori ed i media si accorsero di quel paese dando, all’evento, un’interpretazione che risentiva in modo totale del punto di vista degli esuli che cominciarono ad affollare i salotti “buoni” del Bel Paese. Queste testimonianze – cariche di dolore e di nostalgia per un mondo che, bene o male, non può essere più – hanno condizionato, fino ai giorni nostri, la visione che si ha di quel paese. Tanto di notizie non ne giungono, se non in note d’agenzia distrattamente lette dagli addetti ai lavori.
E’ successo così anche nei giorni scorsi. Una fredda nota ANSA delle 23.03 del 17 gennaio ha ricordato che al secondo turno delle elezioni presidenziali ha vinto Sebastian Piñera Echenique, rappresentante di una coalizione di centro destra, la Coalición por el cambio, Alianza por Chile (voti ottenuti 3.582.800, 51,60% dei voti validi), mentre usciva sconfitto Eduardo Frei Ruiz-Tagle, democristiano e candidato della Conceratión de partidos por la Democrácia (centro sinistra) che da 20 anni governa il paese. Nonostante la lontananza del paese e la sufficienza con la quale queste elezioni sono state commentate (o sarebbe meglio dire “non” commentate) , la notizia merita un esame attento da parte degli osservatori di politica internazionale sotto due differenti punti di vista. Quello relativo alla natura interna di quel paese e quello del suo posizionamento nell’arena dell’America Latina.
Un analista un po’ distratto potrebbe dire che con il ritorno di un governo di centrodestra ( a parte la parentesi pinochista, l’ultimo inquilino della Moneda di “destra” fu Jorge Alessandri che vinse le elezioni nel 1958) potrebbe essere salutato come il momento in cui il paese diventa “normale”, avendo sdoganato la destra, dopo gli anni della dittatura. Ciò non corrisponde a verità. In Cile la “destra” o il “centrodestra”, dopo la dittatura, non subirono mai l’esclusione dall’“arco costituzionale” come successe a quella italiana dopo la guerra. Esse furono attori – spesso importanti – dell’agone politico sia di Santiago, sia di Valparaiso (città in cui risiede il Parlamento). A queste appartiene di pieno diritto anche una destra (Unión democráta indipendente, partito fondato nel 1983) che si rifà chiaramente all’eredità politica di Pinochet. Il suo leader più rappresentativo, Joaquín Lavín, nelle elezioni presidenziali del ‘99 venne sconfitto da Lagos, ma ottenne un significativo 46% dei voti. L’anno successivo vinse le elezioni come sindaco di Santiago. Oltre a ciò più volte il Parlamento e molte regioni ebbero maggioranze di centro destra (quando non di destra).
Una vulgata, nata ai tempi dei fuoriusciti vicini alla UP e difficile da sradicare, vuole che Pinochet fosse non solo un dittatore sanguinario, ma anche un governante senza seguito popolare. E’ sempre curioso constatare come sia difficile ammettere che i dittatori hanno, per gran parte del loro governo, un significativo appoggio popolare. Così come si potrebbe essere portati a sostenere, sulla scorta di alcune dichiarazioni di esponenti democristiani cileni, lette in modo frettoloso, che la strategia ed il conseguente successo di Piñera ne fanno una sorta di Berlusconi al sapore di pisco sour. Certamente il neo presidente ha in comune con il Cavaliere una grande ricchezza (dati “Forbes” indicano che nel 2009 Piñera è posizionato al 701° posto tra le persone più ricche del mondo, con un patrimonio di un miliardo di dollari) e l’accusa di conflitto di interesse, causata dal possesso di numerose azioni in alcune grandi compagnie del paese sia nel campo delle comunicazioni (linee aeree), sia nel mondo sanitario, sia in quello della grande distribuzione.
Le similitudini, però, finiscono qui. Il nuovo inquilino della Moneda non è un homo novus nella politica, come ha sempre voluto rappresentarsi il cavaliere. Egli non è un campione dell’anti politica. Anzi egli ha un cursus honorum politico di lungo corso e di tutto rispetto. Militante di Renovación Nacional, partito che, nato nel 1987, raggruppava molte formazioni vicine al passato regime, fu uno dei pochi esponenti della destra cilena che al plebiscito dell’88 (sulla continuazione della dittatura) votò contro Pinochet. Con il ritorno alla democrazia Piñera lasciò la sua cattedra di docente universitario per proseguire la sua carriera politica conservando il suo posto al senato dal 1990 al 1998. Successivamente ricoprì incarichi di partito come presidente di RN. Come si vede siamo molto distanti dalla strada percorsa dall’uomo di Arcore.
Se il nostro distratto analista avesse scavato un poco più a fondo si sarebbe accorto che, sullo sfondo di un paese molto diverso da quello che era stato tramandato dagli esuli del ’73, vi era uno schieramento, quello di centro destra che – grazie alle passate sconfitte – aveva saputo rileggere la propria storia e proporre un progetto nuovo al paese, anche se in chiave conservatrice, ed uno schieramento – quello di centro sinistra – bloccato da contraddizioni interne e logorato da un monopolio ventennale del potere centrale, mascherato da “continuismo” (E’ da ricordare che Frei Ruiz-Tagle era giò stato presidente dal 1994 al 2000 ed è figlio di Eduardo Frei Montalva, a sua volta Presidente del Cile dal 1964 al 1970).
La vittoria del centro destra è stata quindi la sconfitta della Conceratión democrática. Se il centro sinistra ha il merito storico di aver traghettato il paese alla sua fase compiutamente democratica, con grande pragmatismo e serenità, senza smantellare ciò che di positivo (ad iniziare dalla Costituzione) era stato costruito durante la dittatura, esso, vista l’eterogeneità dei partiti aderenti (non difformi alle coalizioni dell’italico “Ulivo”), si è conformato nel tempo in un clientelismo che, come sempre accade nel lungo termine aliena le simpatie dell’elettorato. Nel caso specifico di queste elezioni, oltre ad un piccolo raggruppamento di sinistra, denominato “Juntos Podemos Más” che riuniva i comunisti, i cristiani di sinistra ed alcuni dissidenti del partito socialista e che era l’unico ad avere una qualche nostalgia per l’UP di Allende, Frei ha dovuto affrontare una nuova fronda rappresentata dalla formazione “Nueva Majoría para Chile” i cui elettori non hanno accettato l’apparentamento con la Conceratión al ballottaggio del 17 gennaio. Ciò non toglie che il centro sinistra cileno si sia sempre distinto per sobrietà rispetto alle molte derive populiste ed anti occidentali delle sinistre sudamericane.
Da quest’ultima osservazione viene il rilievo più importante e significativo circa le elezioni cilene. Mentre gran parte del Sudamerica scivola tra le braccia di folcloristici caudillos e di una più generale politica “urlata” che fa dell’anti-occidentalismo ed anti americanismo una scusa per nascondere le proprie insufficienze e le proprie mancanze di effettive proposte, il Cile con queste elezioni, e nella continuità degli ultimi venti anni, si pone come un Paese in ascesa economica (anche se non possiede materie prime, escluso il rame, soprattutto nel campo energetico) nel settore del terziario avanzato, sconosciuta nell’America latina. La compostezza e il realismo con cui, per anni, è stata gestita l’ingombrante presenza del Generale ormai sconfitto e, alla fine i suoi funerali, la fermezza con la quale il “piccolo” Cile ha respinto le richieste della Bolivia, sponsorizzata dal tragicomico presidente venezuelano Chavez, di cedere del territorio per dare a La Paz uno sbarco al mare (perso dopo la guerra del Pacifico del 1879-1884…).
Al di là di questi esempi sorge una domanda: cosa distingue il Cile dal resto del Sud America? Ciò che ha fatto e fa la differenza è l’esistenza di un forte e diffuso ceto medio. Questo, percentualmente alla popolazione è di gran lunga superiore a quello degli altri paesi dell’area caratterizzati da un ristretto ceto molto benestante e da una sconfinata massa di diseredati, è un ceto medio che genera la vera ricchezza ed è la forza propulsiva di un Paese. Il benessere, in Cile, è meglio diffuso che in tutta l’area. Prova ne è che a Santiago non esistono bidonville o favelas e la povertà – che esiste – raramente si trasforma in assoluta e cieca miseria.
Questo ceto medio – come ben sanno gli osservatori più attenti – è l’estrema eredità di Pinochet che, nonostante la repressione interna, ha creato le migliori condizioni per la sua formazione. Se può essere sufficiente come prova basta consultare gli indici dei consumi e di altri indicatori di benessere su qualsiasi annuario statistico da prima il 1973 al 1990. Il Generale, nella sua ignoranza di questioni economiche, ma nel suo istintivo timore del disordine e alla ricerca di un solido consenso, si affidò ai suoi economisti cresciuti alla scuola di Milton Friedman che “costruirono” quel ceto medio che ereditato dai governi democratici è diventato lo zoccolo duro contro ogni deriva populista.
Sarebbe bello sperare che la lezione di Santiago venisse appresa da altri paesi dell’area, ma è bene non farsi illusioni. Per creare un ceto medio occorre una classe dirigente di primissimo ordine che sappia canalizzare le forze propulsive di un paese, e attualmente non si ha all’orizzonte un leader latino americano di ampia visione strategica. Comunque sono tutte chiacchiere…. Il Cile resta sempre el ultimo lugar del mundo.