La disputa sino-nipponica riflette un mutamento di relazioni tra i due paesi

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La disputa sino-nipponica riflette un mutamento di relazioni tra i due paesi

18 Ottobre 2012

Le Senkaku giapponesi (Diaoyu per i cinesi) sono otto isolotti disabitati e scogli situati fra Okinawa e Taiwan. La loro sovranità è discussa fra Pechino, Tokyo e Taipei da quando, nel 1972, gli USA le hanno restituite al Giappone, assieme ad Okinawa. Sembra che nella loro zona economica esclusiva esistano interessanti giacimenti sottomarini di petrolio e di gas. Il mare circostante è poi molto pescoso. Finora, il problema della sovranità del minuscolo arcipelago era stato accantonato di comune accordo fra tutti gli interessati. Oggi è esploso, divenendo oggetto di violente manifestazioni antigiapponesi in Cina e a Taiwan e anticinesi in Giappone.

I tre governi fanno quanto possono per diminuire le tensioni. Hanno però le mani legate. Quelli giapponese e cinese sono in fase di transizione. Non possono scoprirsi “a destra”, provocando il nazionalismo, crescente in entrambi i paesi. Taiwan non intende essere da meno. Non vuole cedere a Pechino il monopolio del patriottismo cinese. Le cause delle tensioni non sono economiche. Un conflitto fra di loro sarebbe un disastro. Le risorse ittiche ed energetiche esistenti nei mari adiacenti alle Senkuku/Diaoyu non giustificano una guerra commerciale e, tanto meno, un conflitto militare. Quest’ultimo, potrebbe rapidamente spiralizzarsi coinvolgendo gli USA. Washington ha già abbastanza “gatte da pelare” per cercarsene di nuove.

I territori non hanno più il valore di un tempo. Il petrolio si compra, non si conquista. Conservano, però, un valore simbolico ed emotivo – quindi politico – notevole. Le dispute che li riguardano rappresentano efficaci strumenti per mobilitare le opinioni pubbliche a favore dei partiti nazionalisti. Essi crescono sempre durante le crisi economiche.

L’analisi del come siano sorte e siano gestite le dispute sulle Senkaku/Diaoyu suffraga tale valutazione. Il problema è sorto quando, nell’aprile scorso, il governatore di Tokyo – Shintaro Ishihara, uno dei più accesi nazionalisti giapponesi, noto per aver scritto nel 1989 il “Il Giappone che può dire di no” (“agli USA”) – ha affermato che il suo governo municipale aveva l’intenzione di acquistare tre delle otto isole Senkaku da una famiglia giapponese che, prima della guerra, le aveva comprate per costruirvi un impianto per la conservazione del pesce.

Di fronte alle proteste della Cina e di Taiwan, soprattutto per i toni usati nella campagna per la raccolta dei fondi necessari all’acquisto, il governo di Tokyo aveva deciso di acquistare lui stesso i tre isolotti. Sembra che il premier giapponese Noda volesse dare garanzie a Pechino e a Taipei (il cui governo non è riconosciuto dal Giappone) che lo status delle isole non sarebbe mutato e che le isole non sarebbero divenute luogo di pellegrinaggio dei nostalgici dell’Impero del Sol Levante.

Ma la “via dell’inferno è sempre lastricata dalle buone intenzioni”. L’opinione pubblica cinese è stata convinta che Tokyo volesse modificare lo stato giuridico delle isole, recando un’offesa alla Cina. Apriti cielo! La mobilitazione nazionalista anti-giapponese in Cina era già ai suoi massimi.

Recente era stato l’arresto in prossimità delle isole del comandante di un peschereccio cinese da parte della Guardia costiera giapponese. L’opaca transizione politica a Pechino sta mettendo a nudo i contrasti esistenti all’interno del Partito Comunista Cinese. Il nazionalismo è in crescita, facilitato dal rallentamento della crescita, dal fallimento del piano di aumento dei consumi interni per diversificare l’economia oggi troppo dipendente dalle esportazioni e dalla persuasione che la Cina non goda dello status internazionale che merita.

Sempre più discussa è la validità della moderata e pacifica “strategia dei 12 caratteri”, dettata da Deng Xiaoping trent’anni fa. Crescenti sono le richieste di una maggiore assertività internazionale. Se la Cina non può essere amata, deve almeno essere temuta. Molti responsabili cinesi pensano di poter rafforzare con appelli nazionalistici il loro grado di consenso interno. Ritengono che il “gioco valga la candela”. Sono persuasi che gli USA non s’impegnerebbero per la difesa di isolotti di ridotto valore economico e strategico. La loro convinzione è stata consolidata da recenti offerte, fatte alla marina cinese dall’ammiraglio USA comandante del Pacifico, di partecipare a una grande esercitazione navale congiunta.

In questo, molti cinesi sottovalutano gli USA. Pensano che siano in declino e che la Cina sia destinata a trasformarsi da potenza regionale in globale. Washington reagirebbe anche contro un’aggressione parziale e limitata. Se non lo facesse, salterebbe la credibilità del suo sistema di alleanze nella regione dell’Asia-Pacifico. Gli USA sono persuasi che la Cina non solo possa essere contenuta, ma che anche, dati i suoi trends demografici, diventerà vecchia prima di divenire ricca e potente. Il XXI secolo sarà sempre un “secolo americano” del Pacifico, come il XX è stato quello “americano” dell’Atlantico.

Le tensioni per gli scogli delle Senkuku/Diaoyu non vanno però  sottovalutate. Si sono trasformate in una questione di principio. Ogni considerazione ragionevole viene accantonata quando si fa appello alla storia (che ognuno interpreta, beninteso, a proprio modo), alla dignità e all’“onore”, come lo avrebbe chiamato Tucidide. I cinesi stanno boicottando i prodotti giapponesi e effettuando dimostrazioni contro le sedi diplomatiche e le multinazionali giapponesi.

Pescherecci carichi di nazionalisti cinesi e giapponesi hanno effettuato sbarchi dimostrativi sugli isolotti. I dirigenti più responsabili di Pechino e Tokyo sono preoccupati per i circa 350 miliardi di dollari d’interscambio annuale, pressoché equilibrato fra i due paesi. Anche la preoccupazione di Washington è molto forte. Nella sua retorica – che tanto piace a Eugenio Scalfari – Obama ha dichiarato che il nuovo baricentro strategico degli USA sarà sul sistema Asia-Pacifico. Se la situazione sfuggisse al controllo di Pechino e di Tokyo, gli USA potrebbero trovarsi coinvolti in un’escalation militare con la Cina.

A parte gli aspetti “folkloristici”, occorre tener conto che il simbolismo assume un’importanza spesso superiore alla realtà anche in politica internazionale e che si presta ad ogni manipolazione specie nei periodi di transizione. A parte ciò, la disputa sino-nipponica rifletterebbe il mutamento in corso nelle relazioni economiche fra i due paesi. Finora le loro due economie hanno registrato forti complementarietà. La Cina, con i suoi vantaggi competitivi nei settori ad alta intensità di manodopera, è divenuta l’officina di montaggio del mondo, utilizzando per i suoi prodotti la componentistica ad alta tecnologia – e ad elevato valore aggiunto – importata soprattutto dal Giappone.

Quest’ultimo ha potuto avvantaggiarsi per essi delle conseguenti enormi economie di scala. Dati l’invecchiamento della sua popolazione e l’aumento del costo della manodopera, il vantaggio competitivo della Cina sta esaurendosi. La crisi economica mondiale ne sta riducendo l’export. La Cina deve creare un’economia più bilanciata a favore dei consumi interni e tecnologicamente più avanzata. Tende perciò a integrare verticalmente la propria industria, producendo anche la componentistica più avanzata. Ciò la spinge a trasformarsi da complementare in competitiva con l’industria giapponese. Per inciso, anche l’embargo dell’esportazione in Giappone delle “terre rare” – di cui la Cina possiede il semi-monopolio mondiale e che sono tanto essenziali per l’elettronica avanzata – potrebbe essere collegata a tale trasformazione.

Le tensioni per isolotti rocciosi e disabitati potrebbero essere strumentali anche al mutamento dei rapporti fra la seconda e la terza economia del mondo. Non si tratta quindi di dispute del tipo “secchia rapita”. Sono in gioco gli equilibri geo-economici e quindi geopolitici del sistema Asia-Pacifico. I suoi futuri assetti influiranno sui destini del mondo. Non per nulla, il pivot strategico degli USA si è spostato nella regione. L’assenza dell’Europa a fianco degli USA rischia di compromettere i legami transatlantici. La politica estera europea nell’Asia Orientale è oggi dettata sostanzialmente dagli interessi dei grandi gruppi industriali e finanziari tedeschi. Per l’Italia è una fortuna che ci siano almeno loro. Se così non fosse, l’Europa sarebbe del tutto marginalizzata da un’area geopolitica tanto determinante per le sue ambizioni e soprattutto per i suoi interessi.