La divisione dei poteri ‘all’italiana’ non affranca la politica dalla magistratura
08 Giugno 2012
L’indipendenza dei giudici non è messa in discussione dall’affermazione della loro responsabilità e chi sostiene la tesi pecca quantomeno di superficialità. Al tempo stesso è da illusi credere di poter risolvere il problema dei rapporti fra potere politico e ordine giudiziario, stabilendo norme severe in tema di responsabilità professionale.
Il ministro Severino colpisce il cerchio quando conviene che i giudici debbano rispondere del danno ingiusto provocato al cittadino nel caso di dolo o colpa grave. E la botte quando impone che la richiesta di risarcimento sia rivolta contro lo Stato e che lo Stato potrà rivalersi sul magistrato entro il 50% del danno accertato e con le modalità della responsabilità dei funzionari pubblici.
Cambia allora poco rispetto alla disciplina in vigore e meno ancora nella pratica. Perché lo Stato pagherà i danni al cittadino e poi, con piena discrezionalità, deciderà se pretenderne il ristoro dal magistrato. Qualcuno potrebbe concludere che, ripetuto o meno che fosse, il danno, se accertato, potrebbe eccitare la Corte dei Conti, competente a procedere contro l’autore di qualunque danno erariale (il magistrato/autore ovvero il funzionario/autorità che avesse rinunciato alla rivalsa). Ma c’è il rischio di infilarsi in un ginepraio di inopportunità e incognite costituzionali e varrebbe la pena disinnescare preventivamente.
Con la sua proposta, il Guardasigilli glissa invece sulle anomalie del sistema giudiziario, che neppure il governo tecnico sembra in grado di risolvere. Problemi complessi che tradiscono il volto vero delle istituzioni italiane: i magistrati sono funzionari dello Stato riuniti in un Ordine che si comporta come un Potere; al vertice dell’Ordine Giudiziario c’è il Csm, costituito in modo da assicurare possibilità di autotutela e autoreferenzialità ai magistrati; la tripartizione dei poteri riesce ad affrancare la Magistratura dalle interferenze politiche e dell’Esecutivo ma non la politica e l’Esecutivo dalla Magistratura; la metà della popolazione italiana è convinta che il sistema giudiziario sia ideologicamente orientato al punto da contrastare il senso di giustizia.
Questo l’humus nel quale si perpetua la discussione sulla responsabilità civile dei giudici la quale – come detto – si alimentata dell’equivoco di poter contrastare la deriva giustizialista dell’ala radicale della Magistratura. Ma non è così.
La discussione è accesa non tanto per la responsabilità dei magistrati giudicanti bensì di quelli inquirenti. Il danno che subisce il cittadino ingiustamente condannato è definibile e quantificabile, quello che deriva da un atto di polizia giudiziaria disposto dal pubblico ministero molto meno. I magistrati lo sanno e si arroccano dietro il libero convincimento.
Il principio si impone per tenere la Giustizia al riparo da interferenze esterne (soprattutto dell’Esecutivo di cui per secoli la Magistratura è stata il braccio armato). Ad esso fa pendant il potere di nomofilachia della Cassazione, ossia la competenza di stabilire significato e portata delle leggi.
La nomofilachia della Cassazione incontra un solo limite: l’approvazione di una legge ad hoc che fissi cosa voglia significare una certa norma. Si chiama interpretazione autentica, spetta al Parlamento e dovrebbe essere un’eccezione ma così non è stato negli ultimi venti anni. Basta scorrere il milione e mezzo di leggi censito dal decreto Taglialeggi, che avrebbe dovuto disboscare quella giungla ma è abortito un anno dopo il suo varo, nel 2006.
Richiamando il libero convincimento la magistratura inquirente fa intendere – non del tutto a torto – che le sue convinzioni nel corso dell’indagine non possono essere oggetto di giudizio perché non costituiscono decisioni in senso tecnico ma il risultato di una attività di valutazione di fatti e atti che necessitato di iniziative invasive sull’indagato e i suoi beni per trovare riscontro. Il pensiero corre subito alla custodia cautelare, ma danni uguali se non maggiori possono essere prodotti da sequestri, dichiarazioni di fallimento, interdizioni da professioni uffici o incarichi, blocco di conti correnti etc., donde la necessità di rispettare il principio di costituzione materiale che legittima il potere dove c’è responsabilità ma pretende responsabilità dove c’è potere.
La materia è scivolosa quanto gli interessi che si confrontano: il potere di indagine dello Stato e l’habeas corpus atque proprietas dei cittadini. Stabilire quando la Magistratura inquirente abbia errato nella valutazione dei fatti o atti è difficile perché vaghiamo nella regione dell’opinabile e del convincimento personale. E ancorché dia luogo a una riflessione circolare, l’unico aiuto arriva dalla prova della negligenza o dell’intenzione infedele. Probationes diabolicae che faranno impazzire i magistrati chiamati a decidere sulla responsabilità dei loro colleghi. Il che ripropone il problema del chi controlla i controllori presente, a livello istituzionale, nella composizione del Csm (a proposito come poteva restare immune dal frazionsimo che pandemizza la società politica italiana?).
La Costituzione non consente Tribunali speciali ma solo sezioni specializzate di Tribunali comunque non in grado di funzionare. Potrebbe invece essere verificata la strada della giuria popolare in sede civile per questo tipo di responsabilità. Certo, la Società italiana sembra ancora emotivamente troppo magmatica ma varrebbe pena di tentare. Se la Magistratura pretende la fiducia del Popolo in nome del quale sentenzia, perché il Popolo non potrebbe pretendere la fiducia della Magistratura e giudicare come ha sentenziato in suo nome?
Nella patria della Democrazia moderna, i magistrati inquirenti sono elettivi e corrono ben altri rischi: perdere stipendio e lavoro al primo errore o insuccesso. Forse, per una volta, l’Italia potrebbe sperimentare una soluzione di avanguardia.