La ‘dottrina McCain’ non piace a Obama ma alternative non ci sono

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La ‘dottrina McCain’ non piace a Obama ma alternative non ci sono

10 Marzo 2012

Pochi giorni fa il senatore repubblicano John McCain, sfidante di Barack Obama alle elezioni 2008, ha ribadito l’auspicio già espresso, di un attacco aereo da parte degli USA per fermare il regime siriano anche senza il mandato delle Nazioni Unite. Per McCain un attacco armato è “l’unico modo” di far cessare le ostilità che dissanguano la Siria da più di un anno e di “preservare vite innocenti”. Tale attacco, ha detto, potrebbe essere organizzato dalla Lega Araba e dalla Nato (la stessa Lega Araba ha chiesto l’intervento di quest’ultima, che per ora non sembra però intenzionata a muoversi).

Il presidente Obama, parlando alle Nazioni Unite, aveva considerato l’intervento in Libia per fermare la carneficina che stava avendo luogo nel paese, una delle priorità per la sicurezza nazionale: perché non può valere loro stesso discorso per la Siria? Anche in un nuovo "leading from behind". Come ha ricordato McCain Anche in Kosovo nel 1999 la Nato decise attaccare la Serbia senza il via libera formale dell’ONU. A suo avviso, non far nulla sarebbe una grave sconfitta sul piano “morale e strategico” per gli Stati Uniti.

Tuttavia McCain ha incassato, oltre al “no” di Obama, il quale, pur sentendosi vicinissimo alla vittime siriane, ha dichiarato che un intervento armato sarebbe un errore: "… la situazione siriana è più complicata rispetto a quella libica", ha precisato il presidente americano. Perché nel caso della Libia, gli USA avevano “la piena cooperazione della regione”, mentre nel caso della Siria, no.

Obama è convinto che Bashar Al-Assad cadrà, come sono caduti gli altri dittatori, ma sostiene che il modo migliore per raggiungere tale risultato, sia isolare politicamente Damasco. Non sono da meno i Paesi arabi, ufficialmente tanto indignati contro la carneficina perpetrata dal regime siriano, ma di fatto, a parte Arabia Saudita e Qatar (fomentatore della “primavera araba” anche attraverso Al-Jazeera), nessuno manda armi al Syrian Free Army. L’Egitto ad esempio, così solerte nell’inviare armi a Bengasi, teme che in Siria si scateni una “guerra civile”, sostenendo l’esercito ribelle.

C’è un’ulteriore grave rischio, nel supportare indiscriminatamente l’opposizione siriana: quello di favorire gli estremisti islamici, i Fratelli musulmani e i salafiti, com’è accaduto proprio in Egitto. La strategia degli integralisti? Come semprem il dovere islamico del jihad, tradotto impropriamente da noi come “guerra santa”. L’hanno ripetuto in questi giorni proprio alcuni esponenti dei Fratelli musulmani fuori dalla Siria e precisamente in Giordania e in Egitto.

Essi perseguono un jihad non armato, ma compiuto attraverso “il pensiero” e “la parola”, attraverso “le pressioni internazionali” e “le sanzioni economiche dai Paesi arabi e da tutto il mondo”contro il regime di Assad, ha spiegato a Sussidiario.net Abdel Fattah Hasan, membro del movimento estremista egiziano. Si tratta dunque di una strategia più subdola e insidiosa di quella violenta, motivata anche dal fatto che in Siria, i Fratelli musulmani non hanno armi sufficienti per contrastare l’esercito, a differenza di quanto era accaduto in Libia, dove oltretutto la maggior parte della popolazione e degli stessi militari sostenevano le truppe ribelli. "Se la comunità internazionale sostenesse la rivoluzione – dice Hasan – allora anche i Fratelli musulmani approverebbero la lotta armata".

Comunque secondo Mikhail Lebedev, vice ambasciatore russo presso l’Onu a Ginevra, vi sarebbero già circa 15.000 combattenti stranieri schierati contro Assad. Anche Al-Qaeda ha allungato le sue spire sulla Siria. Il 12 Febbraio Ayman Al-Zawahiri aveva espresso il suo sostegno alla rivoluzione, auspicando l’approdo nel Paese di jihadisti provenienti da Turchia, Iraq, Giordania e Libano per combattere gli sciiti e il regime siriano, ricevendo un netto rifiuto.

Tuttavia l’allarme sull’eventualità che i terroristi di Al-Qaeda si stiano effettivamente spostando in Siria, in particolare dal vicino Iraq, sfruttando l’instabilità del regime di Bashar Al-Assad, arriva da più parti: in primis dal Director of the National Intelligence americana, James Clapper, dal Generale James Mattis, Comandante Usa in Medio Oriente, e dal premier iracheno Nouri Al-Maliki, il quale ha avvertito che i terroristi potrebbero spingersi anche in Libia ed Egitto (Paese d’origine di Al-Zawahiri).

L’influenza qaedista in Siria è anche dimostrata dalla rivendicazione dei recenti attentati a Damasco ed Aleppo. E’ chiaro che l’Occidente, che sta combattendo il terrorismo in Afghanistan e nello stesso Iraq, non può permettere che l’organizzazione fondata da Osama Bin-Laden di rovinare anche la Siria.