La dottrina Obama-Clinton per il caos in Medio Oriente
11 Agosto 2016
Si è tenuto nei giorni scorsi a San Pietroburgo un importante incontro tra Erdogan e Putin, dopo le scuse formali rivolte dal primo al secondo destinate con ogni probabilità a mettere fine all’escalation generata dall’abbattimento del jet militare russo al confine con la Siria. Si conclude così, nella sede imperiale degli zar, il percorso post-imperiale della Turchia, che dopo cento anni di occidentalizzazione ritorna nell’alveo orientale sacrificando sull’altare del nazionalismo islamico i rapporti di amicizia con Washington e la presunta voglia di entrare nella UE (con Berlino che saluta benevolmente la riappacificazione tra Ankara e Mosca). Questo capovolgimento è l’ultimo, amarissimo frutto di quel contorto e velenoso arbusto che passerà alla storia come dottrina Obama–Clinton.
Appena eletto, primo caso di Premio Nobel sulla fiducia, Obama diventa l’uomo della pace. La sua dottrina si incentra su due cardini: rifiuto dell’unilateralismo e abbandono della guerra preventiva. È un compromesso tra le due storiche anime della politica estera USA, l’interventismo e l’isolazionismo. Obama non si ritira immediatamente dall’Iraq. Ci mette due anni a farlo. E nel frattempo prende fuoco il resto del Medio Oriente. E del Nord Africa. In Tunisia, in Egitto, in Libia si sollevano le masse. E per l’inquilino della Casa Bianca sembra amore a prima vista. Mentre i soldati americani se ne vanno da un Iraq pacificato a metà si concretizza il sogno di ogni Presidente USA. Scrivere il proprio nome nella storia. Clinton (Bill) aveva ‘creato’ la confusa geografia della ex Jugoslavia, Barak ha a disposizione il corno occidentale della Mezzaluna Islamica.
Dovendo scegliere che fare, Obama si allea con i movimenti dei rivoltosi scambiandoli per sinceri democratici, islamici moderati pronti alla democrazia. Non si accorge che in Egitto, Libia e poi in Siria tra i moderati si nascondono i semi del male. Obama ha sempre avuto questo difetto: vede il mondo attraverso spesse lenti ideologiche e lo peggiora rifiutando ogni compromesso con la realtà . Così, ogni volta che qualcuno, dai moderati in Tunisia, alle tribù libiche, passando per i Fratelli Musulmani in Egitto ed ai resti di Al Qaida in Siria, si rivolta contro il potente di turno, lui e la Clinton accorrono.
La Clinton non è, da questo punto di vista, un personaggio secondario. La unisce a Obama la voglia di rivincita, l’aspirazione a lasciare il segno, l’ambizione. Ed ha l’aggravante di un forte cinismo, come ha dimostrato l’inchiesta sui fatti di Bengasi, quando l’ex Segretario di Stato abbandonò alla furia dei miliziani libici gli americani rinchiusi nel compound diplomatico: quattro cittadini degli Usa ammazzati, tra cui l’ambasciatore, per mano di commando di tagliagole che infierirono sui corpi delle vittime. I commando erano rivoltosi nemici di Gheddafi. A fianco dei quali la Clinton aveva deciso di schierarsi.
L’insieme di tutti questi elementi sono sicuramente passati davanti agli occhi del turco Erdogan nei giorni del fallito golpe. Sia che si sia trattato di un evento orchestrato, sia che sia stato spontaneo, sapendo da che parte si sarebbe schierata Washington, il Sultano ha ripiegato in casa dello Zar. Putin si è a sua volta dimostrato un giocatore di scacchi attento ed accorto, confermando di conoscere a fondo il senso dell’espressione iniziativa politica. Ed ora lo Zar controlla la Porta d’Europa, il cui Custode ha dichiarato la sua forte inimicizia all’Occidente. Se Hillary Clinton dovesse vincere le elezioni presidenziali americane del 2016, questo stato di cose potrebbe solo peggiorare. Lasciando l’Europa alla mercé di Zar e Sultano, cento anni dopo la sconfitta dei loro predecessori.