La farsa di Alberto Sordi e la tragedia della Santa Rita
13 Giugno 2008
di Carlo Meroni
Lascia una sensazione particolare il navigare sul sito della casa di cura “Santa Rita” di Milano.
Un amaro sorriso è suscitato anche dalla sezione del sito dove si pone risalto al fatto che “Nel 1999 la Casa di Cura Santa Rita ha ottenuto la certificazione del proprio sistema qualità ed è attualmente certificata secondo le norme UNI EN ISO 9001-Vision 2000 per tutte le attività sanitarie. Il sistema qualità descrive dettagliatamente le modalità con cui si pianifica, si attua e si verifica la qualità dei servizi offerti al Paziente in tutte le fasi delle attività di diagnosi e cura, tende al costante miglioramento, ed è finalizzato alla soddisfazione degli utenti”.
Chissà se anche qualche responsabile della TÜV, l’ente certificatore, ora sarà chiuso in casa con un almeno un briciolo di vergogna nel cuore.
Ed infine merita una visita la sezione che spiega accuratamente in termini di tempistiche relative alle prestazioni, convenzioni con enti varie e compagnie assicurative, “qualità della camera e del confort alberghiero”, differente ubicazione delle camere, servizi accessori eccetera eccetera… quanto sia conveniente farsi ricoverare a pagamento (anzi: “ricovero in solvenza”, come viene definito sul sito in modo assai più chic) anziché attraverso la procedura del SSN, comunque ben accetta e consentita, grazie al fatto di aver ricevuto nel Gennaio 2000 “…l’accordo contrattuale col quale la Casa di Cura si impegna a rispettare e mantenere i requisiti richiesti dalla Regione Lombardia per lo svolgimento di attività di diagnosi e cura per conto del Servizio Sanitario Nazionale. Tutte le specialità attive nella struttura sono accreditate. Ciò significa che gli utenti possono ricevere ogni tipo di prestazione disponibile, ambulatoriale o di ricovero a completo carico del Servizio Sanitario Nazionale “.
Terminata la visita al sito, mi sono immediatamente sorte due riflessioni.
Per prima cosa mi è stato davvero impossibile non correre con la mente al Dott. Guido Tersilli, al rinomato primario e barone della chirurgia Azzarini, alla “Clinica Villa Celeste convenzionata con la mutua”. Le stesse nefandezze, lo stesso cinismo, lo stesso arricchirsi sulla pelle della povera gente. Con la differenza che nella pellicola di Luciano Salce era rappresentata un’ipotetica e fasulla estremizzazione di come un sistema sanitario privato avrebbe potuto pervertirsi ponendo le ragioni del portafoglio davanti alla salute dei pazienti, mentre invece nel caso di Milano la terribile realtà ha eguagliato e, se possibile, anche superato le nefandezze della fantasiosa sceneggiatura di Sordi. E della gente ci è morta per davvero, non per finzione cinematografica come successe per la “signora Parise” del film.
Almeno, e questo è stato il secondo mio pensiero, Alberto Sordi pensò di chiamare la sua clinica degli orrori (e degli errori) “Villa Celeste”: un nome asettico, benché rassicurante.
A Milano invece non si sono fatti scrupolo alcuno, pur di attirare pazienti, nell’utilizzare il nome di una Santa della quale, probabilmente, non conoscono nemmeno la storia (ed infatti sul sito non c’è la minima traccia o spiegazione del perché la clinica sia stata dedicata a Santa Rita da Cascia).
Probabilmente sapevano però quanto sia affermata la devozione in Italia per la “Santa dell’impossibile”, come viene chiamata popolarmente.
Una donna vissuta nell’Umbria del ‘400, che visse nel dolore e col dolore si santificò. La devozione vuole che, a seguito di sue incessanti richieste, il Cielo le conficcò una spina nella fronte e le permise di rendere la sua sofferenza tanto più simile a quella del Cristo, donandole così la grazia di guarire malati, rianimare paralitici e concedere grazie ad altri santi impossibili.
Nella fede popolare, quando si parla di malattie, è ricorrente la richiesta d’aiuto a Santa Rita. E chissà quanti poveri anziani, rassicurati da quel nome così familiare ed amico, avranno accettato ben volentieri di farsi ricoverare in quella struttura.
Questi miei due personali pensieri non possono però esimermi dal mettere in luce i lati più concreti della vicenda: uno pratico e l’altro etico/sociale.
Quello pratico riguarda l’evidente e stridente lontananza tra quanto è emerso dalle carte degli inquirenti e lo stato di legalità accreditata col quale la clinica operava. Per la Regione Lombardia, e per lo stesso SSN, nonostante vi fosse stato qualche problema di livello fiscale e contabile in passato, quella clinica era, dal punto di vista medico, uno dei fiori all’occhiello della sanità privata.
Elementi di inappropriatezza diagnostica, frequente ricorso a procedure diagnostiche invasive e in assenza di accertamenti di base che avrebbero potuto orientare in modo determinante la diagnosi, costante mancata raccolta di una corretta anamnesi e di una sua valutazione al fine di orientare la diagnosi, indicazione chirurgica posta prima di un ritorno dei risultati degli esami di laboratorio effettuati e quindi senza una loro valutazione, ripetitività delle biopsie, numerosi casi clinici in cui non sono stati correttamente applicati i protocolli nazionali e internazionali di riferimento per la prevenzione, la diagnosi e la cura. E poi accuse per lesioni gravi, omicidio volontario, operazioni inutili effettuate solo per lo scopo di ottenere il rimborso dei DRG, accanimento terapeutico che anziché alleviare le sofferenze dei pazienti le aumentava inutilmente: donne diciottenni alle quali è stato asportato il seno anziché un semplice nodulo, polmoni interamente rimossi anche in lievi casi di TBC, tendini tibiali innestati al posto dei rotulei, viti ossee non sterilizzate impiantate in pazienti di età avanzata.
Il fine di tutto era uno solo: fare soldi, tanti, in fretta, senza farsi scoprire ed anzi dando l’impressione di essere i primi a prendersi a cuore le vicissitudini personali dei pazienti. Alla faccia del “giuramento di Ippocrate”.
In presenza di una mole simile di capi d’imputazione, possibile che Regione Lombardia e SSN non si siano mai accorti di nulla? Come funziona il loro sistema di controllo? Non desta alcun sospetto una clinica che, precisa come un orologio svizzero, presenta ogni mese richieste di rimborsi per almeno 15 operazioni di chirurgia toracica? Perché il dott. Pier Paolo Brega, ex primario della chirurgia toracica non è mai stato sospeso dall’ordine dei medici nonostante le irregolarità del suo operato fossero emerse già nel Settembre 2007 in seguito ad una relazione di una commissione costituita ad hoc? E le connivenze emerse dalle telefonate dei dirigenti sanitari con appoggi compiacenti all’interno della ASL di Milano, nonché con alcuni appartenenti all’area milanese di Alleanza Nazionale che fine hanno fatto? Ora che il tombino è aperto, sarebbe bene ripulire per bene l’interno da tutta la melma, quantomeno per giustizia nei confronti di tutti quei poveracci che ci hanno lasciato le penne o una parte del corpo ancora buona.
Infine lascia allibiti, anche se purtroppo la nostra società comincia ad esserne quasi assuefatta, la totale assenza di rispetto per la dignità dell’essere umano, della sua sacralità.
Come può un medico (diciamo così…per essere gentili) arrogarsi il diritto di stabilire quale sia “l’aspettativa di vita” di altre persone, seppur novantenni? Come è possibile giustificare con l’anzianità del paziente l’inutilità di interventi eseguiti al solo scopo di fare cassa?
Ancora una volta, bambini ed anziani si trovano ad essere degli scomodi ospiti di una società che li vuole attori secondari in un modo di consumatori efficienti e prestanti.
Al limite va trovato il modo di “monetizzare” anche queste due “infelici” fasi della vita. E se per i bambini possiamo notare quanto sia diffuso il business della natalità “on-demand” ed il giro d’affari relativo alle svariate inutilità che ci propongono come indispensabili per far crescere i nostri bimbi, anche i vecchi tutto sommato non sono da buttare: prima li si spreme come consumatori di beni più adatti a dei quarantenni fino a che non ce la fanno proprio più, e poi vengono sempre buoni per recuperare un paio di DRG.
Chi ci rimette, oltre ai poveri pazienti, sono come al solito coloro che stanno ai piani bassi e pagano per le nefandezze commesse lassù negli uffici dell’ultimo piano: 900 lavoratori (metà assunti e metà precari), onesti, sinceramente vicini ai pazienti, premurosi, che da ieri non sanno più che fine farà lo stipendio utile a mantenere loro e le loro famiglie.
Tutto per colpa di un manipolo di dirigenti senza scrupoli che, probabilmente, la faranno franca: nella perfetta tradizione italiana, passato lo sputtanamento mediatico iniziale, in galera non ci finirà nessuno come al solito.
Questa è l’Italia? L’italia che anche nell’efficientissima e Padana capitale lombarda ha superato l’immaginazione delle ciniche macchiette di Alberto Sordi?
No, non mi arrendo. E la mente va al Policlinico di Pavia, dove grazie ad una difficilissima operazione eseguita da uno staff di medici che hanno certamente più a cuore la salute dei pazienti che il proprio conto in banca, una bambina di sei anni affetta dalla nascita da una gravissima e congenita ostruzione all’intestino è riuscita finalmente a mangiare come tutti noi, e senza quell’odiato sondino ha assaporato per la prima volta il piacere di un gelato. Brava Chiara, buona vita!