La ‘febbre’ degli spread si combatte (solo) con la riforma della Bce

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La ‘febbre’ degli spread si combatte (solo) con la riforma della Bce

01 Agosto 2012

Negli ultimi giorni, in molti si sono allineati all’analisi elaborata ad inizio giugno da alcuni economisti della Fondazione Magna Carta, relativamente alla situazione attuale dello spread, con la quale sottolineavamo come il rendimento medio sull’emissione di titoli di stato fosse diventata da molto tempo una variabile esogena a qualsiasi possibilità d’intervento da parte del governo e di come le recenti manovre, soprattutto quelle dal lato delle entrate, avessero sortito un impatto sui rendimenti dei titoli pari allo zero, contrariamente alle speranze del governo. Da qui, la logica soluzione proposta, secondo la quale si riteneva che soltanto un intervento della Bce, concretizzatesi nell’acquisto di Btp, potesse salvare l’Italia dal disastro, evitando che lo spread arrivasse a toccare il punto di non ritorno.

Qualche giorno fa, su La Repubblica, il professor Tito Boeri, che nei mesi appena precedenti la caduta del governo Berlusconi aveva sostenuto accoratamente sulla Voce.info l’ipotesi di una "papi’s tax", ovvero di una tassa reputazionale che l’Italia avrebbe pagato per il solo fatto di avere Silvio Berlusconi in qualità di presidente del Consiglio italiano, ha dovuto ammettere che solo un intervento della Bce può salvare l’Italia. Tra le righe, anche Monti si è accorto di come le cartucce contro lo spread fossero finite, dopo che per mesi si era illuso di poter essere l’uomo in grado di riportare, col suo prestigio, lo spread verso valori più gestibili, lanciandosi in un round di consultazioni con i principali capi di stato europei, Merkel in testa, per poter sondare la fattibilità di un nuovo ruolo da assegnare alla Bce, per salvare i paesi periferici dalla febbre dello spread. Mario Draghi, dal canto suo, ha da subito dato il suo beneplacito a questo progetto, lanciando ai mercati dei segnali rassicuranti ed affermando che il potenziale di fuoco della Bce fosse talmente elevato da poter riportare in poco tempo i rendimenti dei titoli degli Stati periferici a livelli accettabili. Per far questo, però, il Governatore deve ricevere un mandato esplicito dalle istituzioni europee, che dovrebbero acconsentire a rivedere il ruolo dell’istituto di Francoforte, fin dalla sua creazione mai messo in discussione.

Questa mossa ha trovato, in un primo momento, il netto rifiuto della Bundesbank, il più acerrimo depositario e difensore dell’ortodossia monetarista e del controllo della moneta. Tuttavia, la Germania si è accorta che una posizione di intransigenza assoluta non è più sostenibile e rischia di creare effetti collaterali proprio alla politica estera tedesca. La situazione, rispetto a qualche anno fa, è decisamente cambiata. Berlino si trova a fronteggiare una nuova triplice intesa economica sull’asse Roma-Parigi-Madrid, che spinge per l’interventismo di Francoforte, recentemente sostenuta niente meno che da Obama, il quale sta attuando qualsiasi sforzo per aiutare l’Europa ad uscire da questa empasse, che rischia di travolgere anche gli Stati Uniti, le cui finanze pubbliche sono ormai da anni su di un sentiero insostenibile, come gli ricorda ormai senza mezzi termini il suo sfidante Mitt Romney.

Andare contro l’insieme del mondo occidentale è evidentemente una strategia perdente in partenza per Berlino. E così la Merkel, pienamente cosciente del rischio di lasciare l’euro da solo nel mese di agosto, mese nel quale la speculazione finanziaria agisce con più efficacia, come la storia insegna, si è trovata costretta a rilasciare più volte dichiarazioni a sostegno all’euro, che tra le righe significano una resa alle richieste del resto del mondo. Un cambiamento di posizione dalla quale la Germania difficilmente potrà tornare indietro. Anche perché i mercati, che alla fine sono sempre gli unici e soli determinanti della bontà di una politica, hanno subito fatto capire che quello era il segnale che si aspettavano da mesi. Gli spread italiani e spagnoli sono scesi in due giorni di quasi cento basis points, permettendo alle aste dei giorni scorsi di emettere titoli di Stato a rendimenti più bassi, con effetti benefici sulla componente in conto interessi.

Questa è la strada da seguire. Sperare in un interventismo dell’autorità pubblica, per un economista liberale, può sembrare eretico. Ma quello che si vuole proporre non è un intervento vita natural durante di Francoforte. Le riforme di lungo periodo devono essere fatte al più presto e l’opera di revisione della spesa deve diventare una politica sistematica nella gestione dell’economia pubblica. Nessun dubbio al riguardo. L’auspicio di un intervento della Bce nasce solo dall’osservazione di una realtà che vede l’Italia destinata a registrare nel 2012 un avanzo primario pari al 3,4% del Pil (Fonte: Commissione Europea, Spring Forecast 2012), il più alto dell’area euro e nettamente al di sopra della media europea (-0,5%). L’indebitamento netto sarà invece pari a -2% e questo è dovuto esclusivamente alla componente interessi.

Il problema dell’Italia, in questo momento, non è dato dalla mancanza di capacità di tenere le spese al di sotto delle entrate, ma quello di non riuscire ad abbattere la componente interessi. Se si riuscisse ad abbassare il rendimento medio, il pareggio di bilancio verrebbe raggiunto quasi automaticamente. E a quel punto, anche gli effetti positivi sullo stock di debito pubblico comincerebbero a farsi sentire ed il problema diverrebbe solo quello di mantenere sotto controllo l’equilibrio di bilancio, senza ulteriori sacrifici draconiani e gestendo il bilancio pubblico come consigliava Adam Smith, ovvero senza spendere più di quello che si incassa. Un sano principio liberale.

Questo mix di politiche possa rappresentare la corretta quadratura del cerchio per la stato della finanza pubblica. Al di là delle visioni ideologiche, che in economia lasciano sempre il tempo che trovano, è opportuno dotarsi di sano pragmatismo e comprendere che la soluzione al problema c’è, ed è anche velocemente realizzabile.