La ferita del tempo
08 Febbraio 2009
Elven, un po’ emozionato, decise di rifare i calcoli. Nella sera d’agosto, dentro il cerchio di luce della sua lampada, presso la finestra aperta sui profumi del giardino, riottenne lo stesso risultato: nella soluzione delle equazioni che stava studiando c’era, ad un istante preciso, quattro secoli prima, una discontinuità che inquietava tutta una zona della storia. Come uno strappo o una smagliatura del tempo, questa singolarità si riverberava sul futuro e sul passato per fili invisibili ma tenaci, e tutta la storia intorno ne era asciugata e contratta.
Da questo punto singolare esalavano ansiose tristezze, una misteriosa attesa e vaghe speranze di visitazione da mondi possibili e lontani. La sera, sui balconi fioriti dell’estate, sbocciavano dal cuore più segreto degli uomini sogni confidenti che, proiettandosi sul concavo schermo del cielo, si allontanavano con vibrazioni presaghe verso punti imprevedibili dell’orizzonte temporale, tra smorti bagliori cosmici. E quelle onde – attenuate ma ora, dopo la sua scoperta, percettibili – giungevano anche a Elven, che ne era toccato e smarrito.
In lui si mescolavano la malinconia e il crescente desiderio di avvicinarsi in un modo ignoto ma totale a quel pozzo in cui le cascate del tempo precipitavano con un rombo silenzioso. Elven sentiva che in quel momento, quattrocento anni prima, si era prodotto qualcosa d’importante, che riguardava tutti, e lui in particolare, e questa oscura consapevolezza non faceva che accrescere la forza di quel desiderio. Quella lacerazione nello svolgimento ordinato della storia del mondo gli destava dentro una passione tranquilla e struggente, come l’amore per una donna mai veduta.
Fu questo anelito doloroso del cuore a portare Elven in quel tempo lontano? O fu qualche fenomeno più semplice e naturale, sul quale possiamo solo congetturare e di cui lo stesso Elven non fu probabilmente conscio? Del resto, dopo la traslazione, egli non ebbe se non una coscienza offuscata e intermittente della sua vita anteriore: di essa gli restava solo il fulgore attenuato di quel grande, agitato desiderio di vivere nel tempo che una sorte indecifrabile gli aveva fatto intravvedere. E quella fiamma lo aveva arso nel profondo, lasciandolo estenuato nella memoria e nella coscienza.
In una notte illune, nel mezzo di un’estate che non si può narrare, sotto un cielo nero e ardente di stelle enormi e palpitanti, Elven si appoggiava, affranto e commosso, allo stipite di tiepida pietra di una porta sconosciuta. La strada era come un fossato, intorno s’indovinavano piccole case e spazi più ampi sotto quel cielo tumultuoso. Lontano rosseggiavano i lumi di ignoti paesi su invisibili colline. Era l’ora più silenziosa della notte, gli odori passavano col vento. Elven vacillava tra il passato che era il futuro e il presente che era il passato e lungamente si aggrappava a brandelli di ricordi che galleggiavano nello spazio sfatto e dilatato della sua memoria. Un vento leggiero a tratti indugiava vicino allo stipite e bastava per fargli sentire che il suo desiderio era stato esaudito e che quella era la smagliatura del tempo.
Chi può descrivere i sentimenti di Elven? Chi può dire se egli non fosse preda di quel segreto e placido timore che può assalirci in una notte che non è nostra, in cui ci siamo infiltrati per misteriosi interstizi del tempo, ma dove ormai dobbiamo restare, poiché i fili lungo i quali potremmo risalire fino al futuro che ci appartiene sono scomparsi in quell’immenso nero vacuo e tremolante?
Qualche giorno dopo Elven è in mezzo a una piccola folla che segue un predicatore aspro e delirante. Egli non ne capisce le parole, ma quella lingua armoniosa e sonora prefigura la sua, come se ne fosse uno stadio precedente e complicato. Questi suoni si dilatano cadendo da alti pianori e da lontanissime valli, vibrano all’unisono con ignote e giuste corrispondenze. Elven si sente parlare da un passato che non ha conosciuto ma che, in lui, è sepolto sotto immobili strati. Si sfaldano lentamente le incrostazioni del tempo, gli assi tornano a corrispondersi, i piani s’intersecano con misurata regolarità; da allucinate plaghe della memoria riemergono le scabre colline di tufo, i guadi risecchi, le brevi radure tra polverose foreste che la folla traversa a misura dietro i passi del predicatore. In Elven si ricrea un paesaggio del cuore mai visto, ma che gli è familiare. Le parole alate e minacciose, dolcissime e perverse scuotono la folla di donne e straccioni, di bambini e vegliardi, in cui sbocciano slanci e disperazioni, in una massa incandescente e sonora come un’arpa sulfurea.
Per Elven le assonanze si fanno più certe e frequenti, si allineano in armonie più decise, oscillano in ritmi lenti ma sicuri. In quel linguaggio contorto e melodioso il predicatore, dritto come una lama di giustizia, parla di un antico oltraggio, di una ferita aperta da tempo nella tenera carne del mondo, una ferita che ora si è manifestata, e duole, e attende di essere medicata. E quell’offesa radicata nel fondo dei tempi esala su quella muta folla innocente un tormento uguale, infonde una malinconia senza perché negli occhi dei bambini e nel cuore delle donne. Nell’animo attento di Elven quelle parole versano tutta la tristezza di quel popolo triste.
Per quella gente il fluire tranquillo e sereno dei giorni si è inceppato in un’increspatura, in un doloroso incaglio. Per loro il tempo ristagna in una sacca, in una morta gora che rischia d’infettarsi. Il futuro è perduto, non c’è sbocco, se non forse per il tramite di una misteriosa redenzione cui il predicatore allude in modi rapidi e obliqui. In un punto del futuro che non è dato sapere, per un atto di clemenza o di riparazione di cui sarebbe vano cercare l’autore, le pieghe del mondo forse si apriranno per far uscire dal loro seno gigantesco colui del quale l’offesa antica reclamava da sempre la venuta. Elven sente parti remote del cuore agitarsi a queste parole e invano fruga nella sua memoria vacillante in cerca di ricordi.
Nei giorni seguenti, passando per tratturi sassosi, sotto poggi di tufo assecchito, la folla apprende dai lampeggianti discorsi del profeta che le maglie del tempo si sono aperte e che il popolo rassegnato alla disperazione di non avere un futuro può essere salvato. La folla intuisce che lo straniero schivo ed esitante cela nei suoi occhi azzurri il riscatto di tutti. E tutti, insieme, capiscono anche che questa salvazione esige un prezzo atroce. Il cuore di Elven vaga smarrito per territori ampi e ostili, senz’altra guida che le parole del profeta. Le donne lo guardano con amore e compassione, gli porgono il pane; gli uomini lo aiutano e lo sostengono nei passi più difficili della lenta marcia.
Per giorni e giorni vagano dietro il predicatore in un’ampia valle dirupata e franosa alla ricerca del sito adatto. In un tardo pomeriggio d’agosto, infine, il profeta arresta la turba silenziosa con un gesto; indica un ciglione riarso, un albero. Le colline terrose levano visi scabri contro un sole dorato. Il momento dunque è arrivato ed Elven ne sente tutto lo strazio. I movimenti del predicatore sono rapidi e precisi: la vittima viene legata saldamente all’albero a testa in giù e nel silenzioso stupore della sera Elven sente la lama del profeta incidergli brevemente la vena grossa del collo. La sua vita sprizza all’intorno, arrossando la terra alida che beve le gocce pesanti. Un urto possente scuote le rosse muraglie della storia, scoppiano le dighe che rinchiudevano la sacca rimorta; il tempo stagnante corre spumando a ricongiungersi con la corrente tranquilla del mondo. L’onta è lavata, l’antica ferita è sanata e il futuro è ristabilito; ma quella lacerazione che ne ha consentito il flusso resterà a testimoniare il martirio di uno straniero innocente.
Negli occhi azzurri e miti di Elven l’immagine capovolta della valletta terrosa a poco a poco si offuscava, ed egli aveva la straziante consapevolezza di morire per una causa ignota, lontano da tutto ciò che gli era stato caro. Aveva abbandonato il seno tiepido e rassicurante dei suoi giorni, della stagione che gli era stata misurata dalle rigorose leggi del caso, per immergersi in un mondo lontano e inesorabile: e ora questa morte acerba gl’impediva di dare un ultimo sguardo alla dolcezza perduta della sua vita. In quel momento, quattrocento anni dopo, le ragazze passeggiavano sul viale dorato della sua città e gli lanciavano sguardi ridenti e furtivi, qualcuno chiamava da una finestra terrena e ad Elven sembrava di essere quasi felice.
E mentre così disperatamente moriva nel rimpianto, si sentì portato da un lampo angoscioso e sublime nel suo tempo, nella stessa sera d’agosto, quattrocento anni dopo, in un dorato tramonto sul viale. Le ragazze passavano tenendosi a braccetto e ridevano, qualcuno chiamava da una finestra terrena. Elven sentiva il suo corpo giovane e sano muoversi sotto le vesti leggiere, respirava l’aria tiepida e i profumi della sera lo inebriavano.
Tornò a casa un po’ prima del solito. Nelle equazioni che stava studiando aveva scoperto un fenomeno singolare, una specie di discontinuità temporale che si era prodotta quattrocent’anni prima. Dopo cena, un po’ emozionato, Elven decise di rifare i calcoli. Nella sera d’agosto, dentro il cerchio di luce della lampada, presso la finestra aperta sui profumi del giardino, riottenne lo stesso risultato…