La festa più bella negli Usa è quando diventi americano
18 Agosto 2011
A Southport, costa Atlantica degli Stati Uniti, un grande tendone stelle e strisce copre il prato di fronte all’oceano. Tutto intorno bandiere americane, gente con cappellini, magliette o vestiti stars&stripes, e figuranti vestiti da soldati americani che armeggiano attorno a due cannoni dell’800. E’ la Naturalization Ceremony, che si tiene tre volte l’anno per festeggiare gli immigrati di prima generazione che diventano nuovi cittadini della contea di Brunswick.
Negli Stati Uniti la cittadinanza si acquisisce per jus soli, cioè per nascita sul territorio americano a prescindere dalla cittadinanza dei genitori, oppure per jus sanguinis, cioè per discendenza se entrambi i genitori sono cittadini americani e indipendentemente dal luogo dove si nasce. Il terzo modo per ottenere la cittadinanza è la richiesta di naturalizzazione, che può essere presentata da immigrati legalmente residenti negli Stati Uniti da almeno cinque anni o che abbiano servito nelle forze armate americane per almeno un anno. Per ottenere la naturalizzazione è obbligatoria una discreta conoscenza orale e scritta della lingua inglese, dei fondamenti della storia e del sistema politico americano, e buona condotta negli anni di residenza negli Stati Uniti cioè una fedina penale pulita. L’ultimo passo in questo percorso per ottenere la cittadinanza, che spesso dura fino a dieci anni, è la partecipazione alla Naturalization Ceremony. La cerimonia di Southport è iniziata con il saluto delle autorità, che danno il benvenuto ai nuovi cittadini ricordando quali sono i valori, i diritti e i doveri alla base del patto sociale, e dell’American Dream. American Dream che il sindaco Bill Saffo ha descritto così: “I miei genitori sono immigrati qui dalla Grecia cinquant’anni fa. Hanno lavato i piatti, hanno scavato in miniera, e infine hanno aperto un ristorante. Hanno lavorato duro, hanno rispettato la legge, e mi hanno mandato a scuola e alla facoltà di economia. Sono stati tenaci, e hanno creduto che anche loro come tutti avevano l’opportunità di dare ai loro figli un futuro migliore. L’America è l’unico paese al mondo in cui un figlio di poveri immigranti greci come me può diventare sindaco, e altri figli di immigranti possono diventare governatori o presidenti degli Stati Uniti. La mia famiglia ha vissuto l’American Dream.”
Secondo alcuni in realtà il sogno americano è solo retorica. I quartieri più poveri delle città americane continuano a essere abitati dalle minoranze etniche anche quando gli immigrati sono di seconda o terza generazione, e il livello della qualità delle scuole riflette quello del reddito del quartiere. Nelle carceri la maggioranza dei detenuti è afroamericana, nonostante questa etnia rappresenti solo il 14% della popolazione americana. Secondo molti studi la diseguaglianza sociale negli ultimi decenni è cresciuta nella società americana, con una nicchia di ricchi sempre più ricchi e una significativa fetta della popolazione sotto la soglia della povertà. La crisi economica degli ultimi anni ha aggravato ulteriormente la situazione, perché con il 9% di disoccupazione e la scarsità di ammortizzatori sociali le famiglie dei nuovi disoccupati sono repentinamente scivolate in basso nella scala sociale. Non ha caso Obama nei suoi discorsi parla sempre più spesso del bisogno di ricostruire l’American Dream.
Di certo le opportunità di affermarsi professionalmente e socialmente si sono ridotte con la crisi economica, eppure se ne creano sempre di nuove: basti pensare all’invenzione di FaceBook che, oltre a rendere il suo ideatore milionario, da attualmente lavoro a 22mila persone. Di certo è difficile cogliere queste opportunità, perché non sono e non sono mai state regalate, ma possono sempre essere afferrate da chi si dimostra in grado di farlo. In fondo è per questo che il fenomeno migratorio verso gli Stati Uniti non accenna a diminuire, che si tratti di brain drain dai laureati europei, e in particolare italiani, o di manodopera poco o nulla specializzata da Medio Oriente, Asia, Africa e Sud America. Ogni anno 780mila immigrati completano il processo di naturalizzazione. Non si tratta di un fenomeno solo quantitativo ma anche qualitativo, nella misura in cui gli immigrati e soprattutto i figli di immigrati di distribuiscono nella scala sociale americana: se Obama è l’esempio principe di questo processo di integrazione, più massiccio e altrettanto significativo è l’emergere di una middle e upper class imprenditoriale, burocratica e politica espressione delle minoranze asiatiche e latina. Cosa ancora più importante, la cittadinanza acquisita non è solo un pezzo di carta ma sancisce l’adesione ad una società e ai suoi valori.
Nel tendone a stelle e strisce di Southport 155 immigrati da 48 paesi hanno ascoltato commossi e partecipi il racconto del sindaco Saffo. Si sono alzati in piedi man mano che il loro paese di provenienza veniva chiamato all’appello, applauditi dai parenti e dalla folla presente. Hanno prestato giuramento sulla Costituzione e sulla Dichiarazione di Indipendenza, affermando che tutti gli uomini sono uguali e hanno diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Hanno giurato sulla bandiera americana. Hanno cantato il loro nuovo inno nazionale. E alla fine della cerimonia, lo stesso sindaco che prima li aveva salutati come immigrati adesso li ringrazia come my fellow citizens. Solo retorica? Forse. O forse è l’inizio del loro American Dream.