La fine del regime di Assad sarà una vittoria “indiretta” per Usa e Turchia

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La fine del regime di Assad sarà una vittoria “indiretta” per Usa e Turchia

27 Agosto 2012

La Siria è geopoliticamente centrale negli equilibri mediorientali, non solo in quelli del mondo arabo. Lo è sempre stata. E’ uno Stato pluriconfessionale e, in parte, multietnico. E’ stato il paese culla del panarabismo e del secolarismo del partito Ba’ath. Le due ideologie hanno unificato il paese, spesso diviso nella storia.

I suoi equilibri interni hanno sempre avuto riflessi sui paesi confinanti, anch’essi multiconfessionali e multietnici: Libano, Giordania e Iraq. Il dopo-Assad, influirà anche sulla Turchia, dove – oltre mezzo milione di alawiti – tra i 12 ed i 15 milioni di abitanti sono alevi. Essi condividono con i “cugini” siriani una peculiare forma di sincretismo religioso, misto fra l’Islam e il Cristianesimo (entrambi festeggiano il Natale, l’Epifania e la Pasqua e sono considerati sette eretiche dello sciismo).

Perseguitati e sottomessi, nel corso dei secoli, dalla maggioranza sunnita, gli alawiti siriani non parteciparono alla grande insurrezione anti-francese del 1925-27. Anzi, fornirono molte reclute alle forze coloniali di Parigi, che repressero la rivolta. E’ a quel periodo che risale l’infiltrazione sistematica degli alawiti nelle forze armate e di sicurezza siriane.

Essa permise il successo del colpo di Stato del 1970 di Hafez al-Assad, il padre dell’attuale presidente, esponente del Ba’ath e propugnatore di un programma panarabo. Da maggioranza oppressa, gli alawiti si trasformarono così in “padroni del potere”, sostenuti anche dalle altre minoranze (cristiani, drusi e curdi), nonché da esponenti della classe commerciale ed imprenditoriale sunnita, soprattutto delle grandi città: Aleppo, Damasco, Homs e Latakia.

La Siria è sempre stata paladina di un programma panarabo. A differenza dell’Egitto di Sadat e della Giordania di re Hussein, non concluse mai un accordo di pace con Israele. Questo spiega la ragione per la quale è stata per decenni sede dell’ala politica di Hamas, branca dalla Fratellanza Musulmana, nata per iniziativa di Israele e degli USA al fine di indebolire il PLO di Arafat. Un duro colpo alle basi ideologiche del regime è stato inferto dalla decisione di Hamas di abbandonare la Siria e di spostarsi in Qatar, a seguito della repressione dei sunniti siriani iniziata da Assad diciassette mesi fa.

Durante la guerra fredda, la Siria si era trasformata in un satellite di Mosca, da cui riceveva sostegni finanziari e armi. Di fatto, godeva anche del sostegno di Israele. Lo Stato ebraico considerava Damasco uno dei pilastri della stabilità in Medio Oriente, anche se impediva la pace nella regione. Il suo sostegno dato ai palestinesi aveva un limite. La Siria si è sempre opposta, sin dal 1948, alla costituzione di uno Stato palestinese. Sosteneva che l’intera Palestina, il Libano e la Giordania facessero parte del territorio storico della Grande Siria, perla dell’Impero Ottomano. Gerusalemme era favorevole all’occupazione siriana del Libano. Pensava che avrebbe frenato l’Hezbollah, punta di lancia dell’estremismo sciita e di Teheran, ai confini di Israele.

La fine della guerra fredda ha cambiato le carte in tavola. La Siria non poteva più contare sul protettore sovietico. Non poteva neppure sostituirlo con gli USA, come aveva fatto l’Egitto. Avrebbe eroso la legittimazione panaraba, pilastro del regime degli Assad. Si rivolse sempre maggiormente all’Iran, pur continuando ad appoggiarsi a Mosca. Teheran fu ben contenta di appoggiare il regime alawita.

Gli consentiva di estendere la propria influenza sul mondo arabo, contrapponendosi all’Arabia Saudita e all’Egitto. Con l’Hezbollah – legato al Quds, componente operativa all’estero del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica – si espandeva al Mediterraneo. La costituzione in Iraq, a seguito del ritiro USA, del governo  filo-iraniano di al-Maliki, le tensioni sorte per Gaza fra la Turchia e Israele ed il “ritorno” della Russia in Mediterraneo, appoggiato alla base siriana di Tartus, sembravano aver consolidato il regime siriano.

A rompere le uova è intervenuta la rivolta sunnita. Essa non è un episodio che possa essere collocato nella “primavera araba”, anche se presenta taluni suoi aspetti. E’ più simile alla rivolta sciita del Bahrein, repressa dal Consiglio della Cooperazione del Golfo, a guida saudita. I rivoltosi siriani sono però sostenuti dai “dittatori buoni” della Penisola Arabica. A differenza della Libia, la Siria non è isolata. Una vittoria sunnita modificherebbe gli assetti geopolitici dell’intera regione.

Avrebbe un “effetto domino” sul Libano, sui palestinesi, sulla Giordania e sull’Iraq. Teheran subirebbe un duro colpo, tanto più che il delinearsi di un successo sunnita in Siria lo pone sulla difensiva. La nuova Siria sosterrebbe in Iraq i sunniti anti-iraniani, sempre più attivi, con attentati contro gli sciiti. Inoltre, inevitabilmente, la Turchia accrescerebbe la sua presenza in Iraq. E’ l’unico Stato che possa bilanciare la potenza iraniana.

 Insomma, il conflitto fra il governo di Damasco e l’insurrezione sunnita ha effetti che superano di gran lunga i confini siriani. Coinvolge il confronto fra sciiti e sunniti. Pesa sugli equilibri nel Golfo, non solo fra l’Iran e l’Arabia Saudita, sostenuta dal CCG, ma anche all’interno dell’Iraq. Il regime filo-iraniano di Baghdad è sottoposto ad un vero e proprio attacco da parte delle tribù sunnite, sempre dominanti anche al tempo dell’Impero ottomano.

Oggi, esse sono appoggiate dai jihadisti di al-Qaeda e, a Nord, dal governo regionale del Kurdistan. Economicamente, quest’ultimo è sempre più legato alla Turchia, che ne sfrutta le risorse petrolifere, anche per diminuire la sua dipendenza dai rifornimenti russi e iraniani. In particolare, la crisi siriana sta coinvolgendo direttamente l’Iran e la Turchia, i due “pesi massimi” regionali.

E’ quanto sperano gli USA. Il coinvolgimento diretto della Turchia in Mesopotamia può creare un equilibrio regionale che consentirebbe agli USA di diminuire il loro impegno in Medio Oriente e nel Golfo, per dedicarsi al sistema “Asia-Pacifico”, nuovo baricentro strategico ed economico del mondo.

Il crollo del regime di Assad, costituirebbe un grave scacco non solo per Teheran, ma anche per Mosca e, in parte, anche per Pechino. I danni subiti dalla Cina sarebbero però marginali, data l’estrema cautela cinese nella gestione della crisi siriana. Ha lasciato Mosca a giocare il ruolo da protagonista, per opporsi a, peraltro improbabili, interventi militari occidentali in Siria.

La Russia potrebbe perdere, con il porto di Tartus, l’unica base militare che possiede al di fuori dell’ex-URSS. Inoltre, con il suo appoggio al regime alawita ha compromesso i suoi rapporti con molti paesi arabi.

I vincitori sono chiaramente la Turchia e, soprattutto, gli USA. Gli insorti siriani stanno combattendo quasi una guerra per procura a favore di Washington. E’ il trionfo della strategia indiretta. Evita impegni costosi, politicamente e economicamente. Rafforza la Turchia, indispensabile non solo per il Golfo, ma anche per la gestione della “primavera araba”. Indebolisce l’Iran, forse creando le premesse per un accordo vantaggioso per l’Occidente.