La fine di Gheddafi ci ricorda quale sia la faccia disumana della vittoria

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La fine di Gheddafi ci ricorda quale sia la faccia disumana della vittoria

23 Ottobre 2011

Eppure lo sappiamo come muore un dittatore. Lo sappiamo che fine fanno i tiranni, la storia ce lo ha mostrato più e più volte. Sulla morte di Muammar Gheddafi rimane ancora il mistero della dinamica, come se poi, di una dinamica precisa, ce ne fosse realmente bisogno.

All’inizio sembrava che il Rais fosse solo ferito alle gambe, e che fosse stato trasportato in ambulanza verso Misurata. Immediatamente, come in un copione già scritto, sono arrivate le compiaciute reazioni internazionali, seguite dai comunicati del Consiglio nazionale di Transizione libico che promettevano un processo equo e regolare per il prigioniero. Come a voler rassicurare tutti che sì, siamo in guerra da mesi, ci siamo battuti e siamo morti come bestie per mettere fine al regime, ma adesso che abbiamo finalmente per le mani la nostra preda, torneremo esseri umani e, già che ci siamo, anche avveduti e razionali. Tutto, naturalmente, nel rispetto di quei diritti (primo fra tutti, quello alla vita) che per tanto tempo ci sono stati negati. Poi, di lì a poco, la notizia della morte di Gheddafi, "deceduto probabilmente a causa delle ferite durante il trasporto".

Ma internet non lascia certo troppo spazio all’immaginazione, e neanche alle illusioni. Le immagini che sono arrivate, solo qualche minuto più tardi, davano una versione ben diversa dei fatti. E così ci siamo ritrovati a fare i conti con l’altra faccia della vittoria dei ribelli, non quella, quasi commovente, delle esultanze per strada, dei clacson e delle bandiere della nuova Libia, ma quella insanguinata e terrorizzata di un uomo che viene trascinato e malmenato fra spari di mitra e urla d’eccitazione. Nessuna ambulanza, solo un pickup polveroso e un corpo devastato sdraiato sul cofano. L’epilogo, prevedibile, di questa storia raccontata per immagini, è quello del cadavere esposto come un trofeo, con un foro di proiettile alla tempia. Sfido a trovare qualcuno con un minimo di buon senso che non abbia provato orrore nello scorrere quelle foto.

Sarà che noi, spettatori passivi che certe cose le vediamo solo in televisione o sul pc, per tornare alla realtà, abbiamo bisogno di questo. Abbiamo bisogno di vedere il sangue per capire cosa sia la guerra, della brutalità per ricordarci di quello che vuol dire l’oppressione di una dittatura. E di come sia tristemente facile, quando poi esplode la rabbia, scordarsi di essere umani. Non è un fatto culturale. Non c’entra niente che accada in Libia, piuttosto che in Iraq (basti pensare all’impiccagione quasi in diretta di Saddam Hussein) o in Romania.

Perché è successo anche a noi italiani, che non possiamo fare a meno di avere nitide negli occhi quelle immagini di un gremitissimo piazzale Loreto, il 29 aprile di 66 anni fa, con la gente esultante a fare da sfondo a cinque corpi martoriati e appesi a testa in giù. Lo abbiamo vissuto e assaggiato, l’orrore della vittoria, della “giustizia”, della conquista della libertà. Eppure ogni volta è come se fosse la prima. C’è la gioia immensa di vedere un popolo rialzarsi e riprendersi quel che è suo. Ma ogni volta c’è anche un grande, indelebile neo, che noi percepiamo quasi come un fastidio. E cioè il fastidio di provare, alla fine di tutto, quello che non si vorrebbe mai provare nei confronti di un tiranno: la pietà. Lo accettiamo, come se fosse inevitabile. Come ha detto qualcuno, “sic transit gloria mundi”.